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Russia – Ucraina. Storia di una guerra annunciata

11 Marzo 2022

Perché la miopia dell’Occidente e la volontà della Russia siano arrivate all’inevitabile scontro

di Lorenzo Proietti

nell’opinione pubblica russa; che faccia rivivere un’atmosfera da Guerra Fredda nelle relazioni Est-Ovest e che orienti la politica estera russa in direzione che non sarà quella che noi vogliamo veramente».

Con queste parole, tratte da un suo articolo sul New York Times datato 1997, George Kennan (considerato l’artefice della politica del contenimento nei confronti dell’URSS) esprimeva tutte le preoccupazioni sull’allargamento dell’Alleanza Atlantica, decisa ad inglobare quella parte di Europa che apparteneva al blocco socialista, schiacciando definitivamente una Russia sconfitta e umiliata.

Ecco: per cercare di comprendere l’attuale situazione dell’Europa Orientale (o per meglio dire quella almeno degli ultimi due lustri) è necessario ripartire dall’epilogo dell’era dei blocchi contrapposti.

La Guerra Fredda si può infatti considerare una guerra maggiore (o costituente), nella misura in cui abbia generato un nuovo sistema internazionale, sorto tra il 9-11-1989 e il 26-12-1991: un sistema, questo, unipolare, egemonizzato da una sola superpotenza, ossia gli Stati Uniti d’America, che per circa dieci anni lo avrebbero plasmato, in mancanza non soltanto di revisionisti (pure solo incrementali) ma anche di semplici sfidanti.

Gli anni ’90 sono infatti gli anni in cui vengono poste le basi per l’espansionismo della NATO verso Est (nonostante fosse stato diversamente pattuito quando Gorbaciov e Bush Sr. avevano convenuto sulla riunificazione, secondo il classico principio di nazionalità, della Germania) e sono gli anni in cui la stessa Alleanza Atlantica comincia ad intervenire nei cosiddetti contesti out of area, bombardando nei Balcani, prima in Bosnia e poi, nel 1999, nella Repubblica Jugoslava.

L’unica, e assolutamente sui generis, avvisaglia di instabilità arriva solo l’11/9/2001, sotto forma di attacchi terroristici portati sul suolo statunitense da un gruppo non statuale: il resto è storia abbastanza conosciuta; per altro, secondo una parte degli studiosi di relazioni internazionali (Organski) quell’attacco sarebbe stato l’indicatore del classico “Fattore Fenice”, per cui dopo dieci, quindici anni dalla fine di una guerra costituente, potrebbero sorgere nuovi sfidanti che opporrebbero delle forme di instabilità nei confronti dell’egemone.

In ogni caso, la NATO ha continuato inesorabilmente la propria espansione, mentre gli americani si impegnavano in Afganistan, Iraq, Libia, Siria; progressivamente comunque, con il disimpegno dal Medio Oriente, impostato sin dai tempi di Obama, l’approccio strategico è stato focalizzato sul Pivot to Asia, qualificando la Cina (e le sue mosse nell’Asia, soprattutto verso il Pacifico e l’Indiano) quale principale minaccia e cercando di relativizzare l’inimicizia con la Russia, considerata un competitor meno pungente della Repubblica Popolare.

Lo strapotere della NATO

Come ha ricordato il Segretario Jens Stoltenberg, dal 2014 “gli alleati Europei” hanno investito in spese militari oltre 270 miliardi $; intanto, nelle fabbriche statunitensi è già partita la produzione delle nuove atomiche B61-12 che finiranno in Italia e in Europa.

Con l’ingresso della Macedonia del Nord nel 2020, in ventuno anni, la NATO è passata da sedici a trenta stati, lambendo il “giardino” di Mosca, fin dentro le vecchie periferie sovietiche.

Washington, così, ha potuto legare a sé militarmente, ergo politicamente, l’Europa Centro Orientale: le sole Romania e Bulgaria (il loro ingresso è datato 2004) hanno messo subito a disposizione le basi di Costanza e Burgas sul Mar Nero (che ricordiamolo deve essere sempre inquadrato in una ottica di “Mediterraneo Allargato”).

Inoltre, gli USA dispongono ancora di due basi terrestri in Romania e Polonia, oltre a quattro navi da guerra dotate del sistema missilistico Aegis, in grado di lanciare non solo missili anti-missile (in funzione difensiva) ma anche missili Cruise a testata nucleare.

In generale, armamenti offensivi sono posizionati in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici.

Per di più, si starebbero preparando missili nucleari a raggio intermedio, sempre da schierare in Europa, visto anche il ritiro (febbraio 2019) dell’Amministrazione statunitense dal Trattato INF del 1987 sui missili a medio raggio, seguito a quello del 2001 dal Trattato ABM (anti missili balistici), sottoscritto nel 1972.

Da un punto di vista struttural-istituzionale, il Consiglio Nord Atlantico, organo politico dell’Alleanza, secondo quanto statuito, decide sempre “all’unanimità e di comune accordo”; il Comandante Supremo Alleato in Europa, per tradizione, è sempre un Generale statunitense nominato dal Presidente americano, mentre appartengono a Washington anche gli altri comandi chiave.

L’Ucraina

Questa politica di lungo corso si è dovuta confrontare con dei grandi nodi, legati alla sostenibilità di misure che sempre meno avevano a che fare con un atteggiamento difensivo (o al massimo di deterrenza), per trasformarsi in un vero e proprio monito nei confronti di Mosca; esemplificativa, in tal senso, è la questione ucraina.

Crocevia strategico tra Occidente e Oriente, le vicende della neonata repubblica, indipendente dal 1991, appaiono assai complesse. Spaccata internamente sulla base di presupposti politici, geografici e militari molto chiari, in relazione a questioni dimenticate da parte del mondo Occidentale: identità etniche, culturali, linguistiche e storicheche per parte del mondo secolarizzato appartengono ad un remoto passato ma che in altri contesti geografici continuano a rivestire un’importanza cruciale.

Non fosse abbastanza, una grande differenziazione coesiste perfino nel tessuto macroeconomico, giacché se il cuore industriale si trova ad Est del Dnepr, la parte Ovest è quella storicamente a vocazione agricola.

E mentre il Fondo Monetario Internazionale erogava un prestito da 17 miliardi di euro, l’ottica era quella di fare dell’Ucraina un vassallo dell’Occidente, di fronte ad una qualche (remota!?) prospettiva di affiliazione alla NATO, espressa nel Vertice del 2008 a Bucarest, dove gli Alleati dichiararono che la Georgia e appunto l’Ucraina sarebbero in futuro entrate nell’organizzazione.

Ciò nonostante, il paese ucraino ha continuato a versare in condizioni socio-economiche deficitarie (nel 1992 il reddito medio ucraino era il 90% di quello polacco, attualmente è meno del 40%), condizionato da un’economia debole prima e dalla guerra poi; una guerra, questa, scoppiata dopo le proteste di Euromaidan che portarono alla “Rivoluzione” (o al Golpe, dipende dai punti di vista) e che ormai imperversa dal 2014, con oltre 14mila vittime.

Quasi due lustri, in cui sono continuati a giungere aiuti economici, logistici e militari: l’Unione Europea, dopo l’accordo di associazione nel 2017, ha versato nelle casse ucraine tali aiuti per oltre 5 miliardi di euro e in queste ore ha erogato assistenza finanziaria per 1,2 miliardi.

La Russia: tra umiliazione e riscossa

Negli stessi lustri, la Federazione Russa di Eltsin, sconfitta, umiliata e integrata nell’ordine unipolare a guida americana, doveva affrontare un periodo molto difficile, esacerbato dalla drammatica situazione economica e dalla Prima Guerra cecena.

Giova ricordare che il territorio della Federazione è il più vasto del mondo, abitato da oltre 145 milioni di persone, concentrati soprattutto ad Ovest degli Urali, mentre ad Est la paura è che i vuoti siano riempiti dalle popolazioni asiatiche che spingono da Sud.

La Russia, per storia, tradizione e aspirazioni, si percepisce come una Grande Potenza: la sfida lanciata però non è certo di carattere globale, come ai tempi dell’Impero sovietico, bensì regionale, limitandosi alla ricerca di una egemonia circoscritta che rinsaldi la propria sfera di influenza sullo Spazio Post Sovietico, nel proprio Vicino Estero, a maggior ragione dopo le “Rivoluzioni colorate” sostenute e foraggiate dagli Stati Uniti (Georgia, Ucraina, Kirghizistan ma anche in Bielorussia, dove però non ci fu esito positivo).

Da un punto di vista squisitamente storico-geografico si può parlare addirittura di una continuità tra l’Impero degli Zar, l’URSS e la Federazione Russa, sulla base di alcune regolarità, che al netto delle ambizioni e delle risorse naturali, si ritrovano nel sentirsi investita di una missione civilizzatrice (in nome del panslavismo prima, dell’ortodossia oggi, del comunismo nel passato).

Storicamente, l’Orso russo ha sempre avuto la necessità, divenuta questa una vera ossessione,  di un accesso ai mari caldi, in quanto l’Oceano Artico non è propriamente ideale per sviluppare fiorenti commerci via mare.

Chiaramente, il mare (caldo) resta la via meno costosa per proiettare potenza.

Disponendo di risibili confini “naturali” (soprattutto sul fianco occidentale, ad Ovest degli Urali, dove non ce ne sono affatto), il Cremlino si percepisce come scoperto, accerchiato e vulnerabile; in effetti, non è un caso se proprio da Ovest siano arrivate le invasioni, da parte degli svedesi, dei francesi  e dei tedeschi (senza mai dimenticare la Guerra di Crimea del 1853-1856, terminata con la sconfitta e con la cessione della Bessarabia meridionale all’allora Principato di Moldavia).

A proposito del  senso di accerchiamento, nel secolo corrente questo si è tradotto nella preoccupazione costante verso quegli stati considerati come agenti in delega per conto di potenze straniere, su tutti, ovviamente, la Georgia e l’Ucraina per conto degli USA.

Se, come detto, la sfida della Russia è una sfida di carattere regionale, nel Vicino Estero, ossia sullo Spazio Post Sovietico questo, in parole povere, si traduce nella ricerca di un primato geopolitico sulle repubbliche post sovietiche, nel Caucaso meridionale (Armenia, Georgia), in Bielorussia, Moldavia (Transnistria) e Ucraina, mentre con gli allargamenti della NATO e dell’UE, la vecchia Europa Orientale è ormai per Mosca pieno Occidente.

Ecco dunque perché è ormai venuta ogni velleità sui Paesi Baltici, dove comunque abitano tutt’oggi importanti percentuali di russi o russofoni (non di rado ampiamente discriminati e ghettizzati) e nelle cui acque territoriali si gioca una partita importante.

Un paragone con Weimar (?)

A differenza di quanto avvenuto con l’Impero tedesco dopo la Prima Guerra Mondiale (spesso si fa questo paragone) che pure, al pari dei Sovietici, aveva perso non solo militarmente ma anche politicamente ed economicamente, una volta abbattuto il comunismo (emblema del Soft Power ideologico) la Federazione Russa non aveva subito le distruzioni della Germania guglielmina, senza essere costretta a nessuna Pace punitiva di Versailles.

Nel 1991 la Russia era ancora la seconda potenza nucleare e le 14 Repubbliche Post Sovietiche, affiliate già nell’uso della lingua russa quale vettore culturale, si sarebbero nel tempo nuovamente integrate economicamente  con Mosca, dalla quale di fatto dipendono; negli ultimi tempi, oltre al ruolo giocato in Siria, c’è stato pure l’avvicinamento con Teheran, con relative influenze in Iraq e nella Mezzaluna Sciita.

La Russia inoltre non venne spezzettata, se non rispetto alle sue periferie (la Repubblica di Weimar nasceva decapitata della Prussia Orientale) e per di più, ancora in quel 1991, era nona per popolazione mondiale e disponeva delle seconde forze armate del globo (prima per carri armati, uno degli emblemi dell’Hard Power);  infine la Federazione era prima per riserve di gas naturale e nona per riserve di petrolio.

Il Russkiy Mir

Si capisce dunque perché, inaugurato il nuovo corso agli albori degli anni 2000, pur con tutte le criticità interne e i rischi derivanti dalla fluttuazione dei prezzi sui mercati internazionali degli idrocarburi, l’ultimo tassello rimaneva la costruzione di una legittimazione che giustificasse una postura rinnovata; insomma, un nuovo Soft Power coerente con gli orizzonti regionali, che prende le sembianze del Russkiy Mir (Mir in russo, vuol dire pace ma anche mondo).

In sintesi, questa espressione si può tradurre come l’impegno del Cremlino di garantire una pace (e la protezione) lì fin dove arriva il mondo russo (in maniera molto rozza si potrebbe quasi leggerlo come una via russofila all’interventismo umanitario, sperimentato dagli occidentali in Bosnia, Jugoslavia, Libia), sulla base di quattro differenti livelli.

In primis, la Russia si propone quale garante dei diritti delle popolazioni “russe” che vivono al di fuori dei confini della “madre patria” (di etnia russa ma con cittadinanza di una delle tante realtà nate nel post 1991), popolazioni che in tal senso non debbono essere per forza costituite da russi etnici ma anche semplicemente russofone (ossia utilizzatrici del russo come lingua vettore); in quest’ottica, nel 2014, è stata approvata una legge per la quale i madrelingua russi residenti al di fuori della Federazione hanno la possibilità di richiedere la cittadinanza russa.

Non è un caso se c’era stata una grande eco quando Kiev, ad esempio, era stata accusata di violare il diritto dei crimeani nell’usare il russo quale lingua ufficiale, così come per la cancellazione dell’insegnamento dello stesso idioma; nel 2019, la Verchovna Rada (il Parlamento) avrebbe varato una legge che stabiliva l’ucraino quale lingua ufficiale del paese, sostituendo il russo nelle scuole medie in cui veniva usato.

Mosca, ancora, si legittima come protettrice dei diritti dei Cristiani Ortodossi, soprattutto di quelli d’Oriente (non è un caso se, e qui si può ricontestualizzare “ideologicamente” anche l’intervento in Siria, le Chiese mediorientali vedono nei russi un alleato contro l’ISIS).

Per ultimo, il sostegno viene offerto anche verso i “compatrioti”, vale a dire quei discendenti di persone  che vivevano in URSS ma che comunque mantengono con la Russia dei legami culturali e spirituali, pur non essendo russofoni o etnicamente russi.

Ideologia e sicurezza

La cecità occidentale nel non rendersi conto dei pericoli generati dalla NATO aveva già portato a delle avvisaglie, sfruttate da Mosca per proporre successivamente, e a più riprese, la valorizzazione di un ordine internazionale “più equo”: questa “costruzione ideologica” era stata usata, per esempio, nel 2008, per legittimare l’intervento in Ossezia del Sud, voluto ufficialmente per proteggere l’incolumità dei civili osseti in seguito all’incursione georgiana. Non è tutto: ci sono, oltre alla Crimea, le recentissime operazioni dei contingenti russi, inquadrati tra le truppe operanti sotto l’egida dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (ai sensi dell’articolo 4 del Trattato), avvenute tra il 6 e il 13 gennaio scorso in Kazakhstan, in soccorso del Governo di Toqaev.

Anche sull’Ucraina, la clessidra era ormai arrivata in fondo: dopo Maidan, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, era stato il riconoscimento (12 giugno 2020) della stessa, da parte della NATO, in qualità di partner nel quadro del programma “Enhanced Opportunities”, così da migliorare  l’interoperabilità e la cooperazione tra le forze dell’Alleanza e quelle dell’esercito ucraino.

Chiaramente tutto questo non poteva venir tollerato da Mosca che consequenzialmente opponeva un primo grande ammassamento di truppe nella primavera 2021, lungo in confine, con oltre 100.000 uomini seguito, nell’autunno successivo, dallo spostamento di ulteriori truppe (tra i 90.000 e i 120.000 soldati), per una nuova escalation, che avrebbe portato alle stelle le tensioni, sebbene la diplomazia non abbia mai cessato di lavorare.

L’infruttuosa evoluzione della richiesta russa di un trattato che vincolasse giuridicamente la fine di ogni ulteriore allargamento della NATO, la cessazione delle esercitazioni nell’Europa Centro Orientale e la rinuncia all’istallazione di missili a corto e medio raggio miranti la Federazione, non ha fatto altro che peggiorare la situazione, fino a farla precipitare.

L’ultima grande accusa fatta all’Ucraina è stata sul mancato rispetto dell’implementazione degli Accordi di Minsk da parte delle Autorità di Kiev, secondo quanto denunziato da Putin.

Un mancato rispetto, aggravato dalle violenze perpetrate nei confronti delle popolazioni civili delle Repubbliche del Donbass, Lugansk e Donetsk; tant’è vero, che dopo averle riconosciute come indipendenti (lo scorso 21 febbraio) e aver siglato con loro un patto di mutua assistenza, il Presidente russo si è appellato  all’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite che sancisce il “diritto naturale di autotutela individuale o collettiva”.   

Il resto è cronaca, recente e drammatica, motivo per il quale, sembra impossibile fare previsioni, persino nel medio periodo.

Se c’è una certezza però è che, in un modo o nell’altro, si sia riusciti ad indebolire i rapporti tra l’Europa e la Federazione Russa (che ormai guarda alla Cina e persino all’India), troncandone e sfilacciandone le relazioni economiche e diplomatiche; e questo, da un punto di vista geopolitico, non potrà non avere delle ripercussioni, di portata sicuramente epocale.

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