Attualità

IL TEMPO DELL’ECCEZIONE: UN ASSASSINIO POLITICO VOLUTO DA TRUMP

6 Gennaio 2020

E attenzione, italiani. Non chiamiamoci fuori. Il nostro paese, legato a doppio filo alla NATO, è obiettivamente agli ordini di un criminale internazionale. Prendiamone atto e reagiamo di conseguenza.

Fonte: francocardini.it

Cari Amici, la lotta politica internazionale è durissima e crudele: ne siamo consapevoli, e nessuno è innocente.
Ma a tutto c’è un limite. Diciamolo rivolti a colui che si crede il padrone della terra, e diciamoglielo con le parole di fra Cristoforo a don Rodrigo nei
Promessi sposi: “Hai passato la misura: e non ti temo più”.
Proseguendo sulla via dell’ignobile piano di destabilizzazione del Vicino e del Medio Oriente elaborato insieme con i responsabili arabo-sauditi e con Benjamin Netanyahu, il boia della Casa Bianca si è sporcato di nuovo le mani di sangue.
In Iraq, un raid statunitense nell’area prossima all’aeroporto di Baghdad è rimasto ucciso mediante uso di un drone il generale iraniano Qasem Soleimani, comandante delle forze speciali delle Guardie della Rivoluzione Islamica denominate
Quds (termine che in arabo designa “la Santa”, ed è il nome con il quale ordinariamente i musulmani designano Gerusalemme) ed eroe della lotta contro lo “stato islamico” del “califfo” al-Baghdadi e i suoi mandanti e finanziatori wahhabiti e neocons. L’azione criminosa in quanto mirata direttamente ed esplicitamente all’assassinio dell’alto ufficiale è stata ordinata dal gangster che attualmente occupa la Casa Bianca, Donald Trump. Nel medesimo episodio è caduto anche il vicecomandante della milizia paramilitare sciita Hashd Shaabi, Abu Mahdi al-Mohandes. Il Pentagono ha responsabilmente (si fa per dire) definito il crimine “un’azione difensiva”, con ciò escludendo ogni possibile formale eufemismo di natura diplomatica. Se lo squilibrio delle forze tra USA e Iran fosse meno evidente e pesante, saremmo dinanzi a uno specifico casus belli. Ciò aggrava evidentemente l’entità dell’atto criminoso: è la viltà del più forte, che in quanto tale si ritiene in diritto di fare quel che vuole dove e quando vuole.
Il crimine mira evidentemente ad aggravare il già duro confronto in atto nel Vicino e Medio Oriente tra statunitensi e loro alleati da una parte (la fantomatica, cosiddetta “coalizione”), forze sciite filoiraniane sirolibanesi e irakene nonché Iran stesso dall’altra. La Guida Suprema della Rivoluzione iraniana, lo ayatollah Khamenei, ha promesso (non solo minacciato) “dure ritorsioni”; e il ministro degli Esteri della repubblica islamica d’Iran Javad Zarif, un diplomatico universalmente apprezzato per prudenza e moderazione, ha denunziato il crimine in modo inequivocabilmente chiaro, collegandolo a un contesto che lo rende ancora più odioso: “L’atto di terrorismo internazionale degli Stati Uniti con l’assassinio del generale Soleimani, a capo della forza più efficace nel combattere Daesh, al-Nusra e al-Qaeda, è estremamente pericoloso e una folle
escalation. Gli Stati Uniti si assumeranno la responsabilità di questo avventurismo disonesto”. D’altro canto l’ambasciata statunitense a Baghdad, forse a sua volta còlta di sorpresa, ha con urgenza invitato i cittadini del suo paese a “lasciare l’Iraq immediatamente”. Trump non esita, nella sua logica esaltata, a mettere in pericolo le vite dei suoi stessi concittadini.
Si può ritenere che la folle decisione del capogangster sia stata in qualche misura anche il risultato del suo disorientamento dinanzi alle recentissime vicende irakene: prima uno scambio di missili fra postazioni statunitensi e basi armate delle milizie sciite armate e sostenute da Teheran (e fin qui, purtroppo, si trattava della brutale “ordinaria amministrazione”: conseguenza, non dimentichiamolo, della criminale aggressione del 2003 all’Iraq di Saddam Hussein, ch’è stata determinante nella destabilizzazione del paese e di tutta l’area vicina inaugurando una realtà di generalizzati conflitti che dura ormai da diciassette anni); quindi l’assalto di migliaia di manifestanti all’ambasciata statunitense in Baghdad, atto giudicato a Washington come conseguenza di un “piano orchestrato dall’Iran”. L’ineffabile Mike Pompeo ha fatto pubblicare foto di irakeni sunniti in festa, inneggianti all’assassinio.
Qasem Soleimani e Mohammed Ridha, responsabile delle relazioni pubbliche delle forze sciite e filoiraniane in Iraq, erano da poco atterrati all’aeroporto internazionale di Baghdad ed entrati in una delle due auto che li attendeva quando è stato sferrato l’attacco, seguito dal lancio di tre razzi sull’aeroporto che non hanno causato alcun ferito.
Il Pentagono ha comunicato che l’attacco è stato ordinato direttamente dal presidente Donald Trump e vuol essere un deterrente per futuri piani di attacco iraniani. Il Dipartimento della Difesa statunitense ha aggiunto che “gli Stati Uniti continueranno ad assumere le azioni necessarie per proteggere la nostra gente e i nostri interessi ovunque nel mondo”, dichiarando che “il generale Soleimani e le sue forze Quds sono responsabili della morte di centinaia di americani e del ferimento di altri migliaia” nonché degli “attacchi contro l’ambasciata americana a Baghdad negli ultimi giorni”.
D’altronde, viste le intenzioni dell’occupante della Casa Bianca, bisogna dire che esse hanno dato frutti immediati. La Guida Suprema iraniana Khamenei, indicendo tre giorni di lutto nazionale in Iran, ha aggiunto che l’uccisione del generale Soleimani raddoppierà la motivazione della resistenza contro gli Stati Uniti e Israele, a sua volta considerato complice dell’attacco che ha portato alla morte del capo delle forze speciali di Teheran. Sono davvero minacce impotenti, è davvero pura retorica la sostanza di queste parole di Khamanei, “Il lavoro e il cammino del generale Qasem Soleimani non si fermeranno e una dura vendetta attende i criminali, le cui mani nefaste sono insanguinate con il sangue di Soleimani e altri martiri dell’attacco della notte scorsa”? A sua volta il presidente iraniano Hassan Rohani, al quale guardano con fiducia le forze politiche che in tutto il mondo continuano a sperare nel dialogo e nell’equilibrio, si è trovato costretto ad avvicinarsi a quelle forze radicali del suo paese ch’egli contrasta da sempre: “Gli iraniani e altre nazioni libere del mondo si vendicheranno senza dubbio contro gli Usa criminali per l’uccisione del generale Qasen Soleimani”, ha dichiarato. “Tale atto malvagio e codardo è un’altra indicazione della frustrazione e dell’incapacità degli Stati Uniti nella regione per l’odio delle nazioni locali nei confronti del suo regime aggressivo. Il governo americano, ignorando tutte le norme umane e internazionali, ha aggiunto un’altra vergogna al record miserabile di quel Paese”.
Ma la strategia di Trump, che mira allo scontro frontale con l’Iran o in sottordine a provocare la caduta del regime moderato di Rohani e la sua sostituzione con forze estremistiche le quali giustificherebbero finalmente un attacco armato simile magari a quello perpetrato nel 2003 contro l’irakeno Saddam Hussein (con le conseguenze note a tutti, che stiamo scontando ancora e che, nei confronti dell’Iran, darebbe luogo a ben più gravi conseguenze), sta già producendo i suoi frutti avvelenati. Gli USA “debbono cominciar a ritirare le loro forze dalla regione islamica da oggi, o cominciare a comprare bare per i loro soldati”, ha affermato il vicecapo delle Guardie della rivoluzione iraniane, Mohammad Reza Naghdi, citato dall’agenzia Fars. Sono parole retoriche di un
politische Soldat, è evidente; com’è evidente ch’esse fanno appunto il gioco del criminale di Washington. Naghdi ha difatti aggiunto che “il regime sionista dovrebbe fare le valigie e tornare nei Paesi europei, da dove è venuto, altrimenti subirà una risposta devastante dalla Ummah islamica. Possono scegliere, a noi non piacciono gli spargimenti di sangue”. Evitiamo di cader nella trappolaottimistica che c’inviterebbe a pensare a minacce a vuoto. Nell’opinione pubblica iraniana e sciita queste parole sono pietre, anzi bombe.
La chiave politico-diplomatica di tutto sta nella dichiarazione aperta ed esplicita da parte del capobanda Trump, che purtroppo è titolare ufficiale e legittimo di un potere universalmente riconosciuto. Di governi che organizzano assassini politici internazionali la storia è piena: ma solitamente, nel farlo, essi elaborano sempre anche scappatoie e paracaduti diplomatici di vario tipo per evitare che le ritorsioni appaiano formalmente legittime. Qui un’azione gangsteristica si distingue da un’azione politica sia pure criminosa. Qui, perfino gli Hitler e gli Stalin si differenziano dagli Al Capone e dai Vito Corleone. Non si tratta solo di differenze formali: quando si perde il senso dell’importanza etica e civile di queste distinzioni ci si avvia pericolosamente sulla via della legge della jungla.
Degli effetti di questo ennesimo crimine, più grave degli altri, l’Iraq sarà il primo obiettivo, il primo a pagare caro: e il suo calvario dura ormai da più di tre lustri. Il primo ministro irakeno dimissionario, lo sciita Adel Abdul-Mahdi, accusato nel corso delle ultime proteste di essere un uomo vicino a Teheran (quando si dice la scoperta dell’acqua calda…), ha condannato il raid aereo americano definendolo una “aggressione” nei confronti dell’Iraq, oltre che una “violazione di sovranità”: “Portare avanti operazioni di eliminazione fisica contro esponenti irakeni di spicco o di un Paese fraterno in territorio irakeno rappresenta una flagrante violazione della sovranità dell’Iraq”, oltre a una “pericolosa
escalation che scatena una guerra distruttiva in Iraq, nella regione e nel mondo”, ha aggiunto. Tutto lapalissiano, direte voi. Senza dubbio: com’erano lapalissiane, giudicate col “senno del poi”, le conseguenze del colpo di pistola di Sarajevo del ’14 e della reazione franco-tedesca all’occupazione di Danzica del ’39.
Anche la voce del Cremlino si è fatta sentire: con quella ragionevolezza e quella moderazione formale di cui Vladimir Vladimirovich Putin è riconosciuto Maestro, e che rischia di fargli dare ragione anche quando non ce l’ha. “L’uccisione di Soleimani è stato un passo avventuristico che accrescerà le tensioni in tutta la regione”, scrivono le agenzie Ria Novosti e Tass seguendo passo dietro passo le dichiarazioni del ministro degli Esteri, Sergej Lavrov: “Soleimani ha servito con devozione la causa per la protezione degli interessi nazionali iraniani. Esprimiamo le nostre sincere condoglianze al popolo iraniano”. Ipocrisia diplomatica, direte voi. Ma sono le regole che servono a evitare a qualunque gioco di divenire mortale. E chi ha mai autorizzato gli Stati Uniti ad azioni estreme in difesa – quanto meno sul piano delle intenzioni – dei propri interessi nazionali con metodi ed effetti che, posti in atto invece da altri, vengono per definizione giudicati “terroristici”?
Le prime conseguenze del piano destabilizzatore di Trump, ormai entrato in una fase ulteriore che potrebb’essere definitiva, si sono già mostrate. Il leader sciita irekeno Moqtada al-Sadr ha già dato ordine ai suoi combattenti, su Twitter, di “tenersi pronti”: è il segnale della ripresa delle attività della sua milizia, ufficialmente dissolta da quasi un decennio. Quanto a Soleimani, egli è ormai uno
shahid, un martire, come lo ha definito Keyvan Khosravi, portavoce del Consiglio supremo di sicurezza della Repubblica islamica d’Iran. Gli ha fatto eco il comandante delle unità di mobilitazione popolare sciite irakene Hashed al-Shaabi, Qais al-Khazali: “La risposta al sangue del martire Abu Mahdi al-Mohandes sarà l’eliminazione di tutta la presenza militare americana in Iraq”. Con discrezione ma anche con decisione, intanto, anche Israele si appresta ad alzare da parte sua la guardia. D’altronde, l’asse di ferro fra Trump e Netanyahu obbliga a prepararsi al peggio.
Va detto peraltro che gli Stati Uniti si presentano ben diversamente che allineati e coperti dietro ai passi di
Totentanz mossi dalla Casa Bianca.
Il candidato democratico alle future elezioni, Joe Biden, ha espresso la sua preoccupazione dichiarando che Trump ha gettato “dinamite in una polveriera”. Un’altra candidata, Elizabeth Warren, ha affermato che “Soleimani era un assassino responsabile della morte di migliaia di persone, inclusi centinaia di americani. Ma la mossa avventata provoca un’escalation della situazione con l’Iran. La nostra priorità deve essere evitare un’altra costosa guerra”. Il giudizio soggettivo della signora Warren nei confronti del comandante Soleimani può avere qualche riscontro obiettivo (per quanto le fonti ufficiali statunitensi per ora si limitino a dire che egli si limitava a “minacciare la vita di centinaia di cittadini americani”, tra i quali peraltro molti vestono l’uniforme e occupano un paese che non è loro: ma quest’esecuzione su base presuntiva ricorda molto da vicino la giacobina “Legge dei Sospetti” del 1793): ma di quanti generali statunitensi si potrebbe tranquillamente dire la stessa cosa se non peggio? A parte ciò, i più accreditati osservatori delle cose iraniane non hanno mancato di sottolineare come le scelte di Soleimani fossero costantemente ispirate al massimo di moderazione compatibile con le sue funzioni. Lo si è eliminato esattamente per la stessa ragione per la quale si vuol fare in modo che Rohani esca sconfitto dalle prossime elezioni iraniane: Trump & Co. vogliono che in Iran trionfino le forze estremiste, in modo da poter lucrare pretestuosamente una parvenza di legittimità ai nuovi colpi che si apprestano ad assestare contro quel paese. Un progetto ignobile assolutamente degno di loro.
Quanto al Congresso, i parlamentari americani non erano stati avvertiti dell’attacco ordinato dal presidente Trump: lo si legge in un comunicato del deputato democratico Eliot Engel. Il raid eseguito in Iraq “ha avuto luogo senza alcuna notifica o consultazione con il Congresso”, recita la nota. Soleimani era “la mente di una grande violenza” e ha “il sangue degli americani sulle sue mani”; tuttavia, “intraprendere un’azione di questa gravità senza coinvolgere il Congresso solleva seri problemi legali ed è un affronto ai poteri del Congresso nella sua veste di ramo paritetico del governo”.

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