Donna: storia di femminilità e potere
Editoriali

Donna: storia di femminilità e potere

1 Giugno 2020

La rivista «Revolvere» sceglie di partire con un primo numero monografico sul tema della donna, nel suo rapporto con la femminilità e con la strumentalità del femminismo. Ne parla parafrasando il titolo di una pubblicazione di Edy Minguzzi, il cui saggio sulla donna nel mondo della tradizione ha aperto un proficuo dibattito sugli esiti del femminismo e la presenza nascosta di una femminilità più o meno inespressa in ogni donna e in ogni donna di qualsivoglia epoca. Nelle sezioni che dal numero zero compongono l’ossatura di «Revolvere» abbiamo accolto contributi eterogenei, talvolta visioni non coincidenti completamente, non tanto nell’analizzare gli esiti di anni di femminismo e di femminilità repressa, quanto sulle cause che un tale andazzo hanno generato, da una dipendenza dall’essere maschile ad una autonoma caratterizzazione della propria sessualità e del proprio ruolo sociale, che si è mosso negli ambienti alto borghesi prima che popolari.

La stessa copertina è stata ideata e disegnata da un’artista torinese, Violante Paleologa, che ha voluto pensare alla femminilità nell’ottica della imperfezione e del realismo, del femminismo come leva per una riappropriazione della propria libertà di scegliere come essere. Il come è stato forse il discrimine maggiore che la donna ha vinto nel corso dei secoli, dalle sacre scritture alle pagine poetiche di artisti e storici di pregio, essa necessitava di essere costretta in categorie sicure, perché per natura uterina e sfuggente. Eppure attratta dal potere, legittimata dalla cultura, a affascinata dalla guerra, spesso e volentieri si è allontanata dall’angulus sicuro del focolare assegnatole ed è diventata scaltra e intrigante, la meretrix imperiale di cui ha scritto indignato Giovenale, la pulzella di cui ha narrato la storia di Francia, l’artista invidiata dal volto di Elizabeth Siddal, la rivoluzionaria e il modello di un Paese come la Eva di Peron; l’accogliente letterata, come l’Aspasia periclea o la saggia e colta Sulplicia, la fredda stratega ammaliatrice di uomini, la spia astuta e avvenente come la Fulvia di Cicerone o la Mata Hari olandese. Non solo madre, non solo moglie, ma donna impegnata, legittimata a parlare per tramite dello studio e del metodo, in un mondo di maschi competitivi; conquistatrice instancabile di un ruolo non secondario. Tra uomini e Dèi quanto abbia contato l’esser donna può spiegarlo esaustivamente solo la misoginia del mondo antico e moderno, l’odio, che è un sentimento potente almeno quanto l’amore, riservato ‘all’ambiguo malanno’, forgiato da Zeus a scapito degli uomini. Non meno importanti esemplarmente le sculture delle divinità ‘materne’, detentrici del potere della fertilità e del forgiare, del formare o modellare. A concludere la casistica in ne il ricorso alla forza giuridica, per tenere a freno la sensualità e la libertà di parola e azione delle donne, per le quali vengono prescritte limitazioni a modello dei comportamenti; esempi principali possono apparire il limite del consumare alcol, il non far testamento, il non rappresentare altri in giudizio (da un certo periodo in poi), il ricevere la metà del patrimonio paterno, in talune culture o il non poter decidere per il proprio patrimonio. Con diversità consistenti a seconda delle civiltà e dei periodi storici le donne delle società classiche, dalla greca alla etrusca, alla cretese e romana, hanno convissuto allegramente, pur tra regolamentazioni severe, talvolta più talvolta meno permissive, e mai hanno pensato ad unirsi in nome di rivendicazioni femministe o di genere, come si usa dire, che mettessero in discussione uno dei ruoli fondamentali della donna, che rimane l’esser madre accogliente, custode della identità familiare, ipostasi del fuoco. Non lo ha pensato una matrona romana come Ortensia, che nel 42 a.C. ha guidato con orgoglio la rivolta femminile delle ricche matrone, preoccupate di un editto con cui i furbi triunviri avrebbero voluto tassare circa 1400 donne aristocratiche. Non rimasero mute a Roma, anni addietro, le donne che nel 195 a.C. per abrogare una legge suntuaria a loro dire sconveniente organizzarono un vero e proprio sit-in, osteggiato dal Senato e dal conservatorismo saggio e misto’ di pregiudizi gretti’ di Catone il Censore. Alla ne il provvedimento fu abrogato, le donne vinsero e Catone perse, ma Roma non si scandalizzò alla notizia più di quanto si possa oggi pensare. Non si scandalizzò la Grecia antica, di vedere insegnare la giovane e bella Ipazia, che non per la dolcezza delle carni bianche e candide si trovò a capo della scuola di Alessandria dal 393 d.C., seguita fra i tanti allievi anche dal severo Sinesio, giunto da Cirene per ascoltare le sue lezioni. Queste donne hanno saputo ritagliare un proprio spazio e lo hanno fatto con valore e volontà non minore di quella di un uomo, lo hanno fatto nel rispetto della loro femminilità e del ruolo che comunque naturalmente la sessualità di appartenenza riconosce loro. Portate ad agire nel silenzio normale delle case e poi dei palazzi, esse non scompaiono mai no in fondo dalle tele degli artisti e dalle pagine dei letterati, ma anche dagli aspetti decisionali della politica. Messalina, famosa a Roma come poche, perché vendicativa quanto ambiziosa, nella scalata al potere non è sola, è accompagnata dal gentil sesso che ha saputo, all’occorrenza, mostrarsi freddo, grintoso, crudele, tattico, seducente e ero.

È proprio nel rapporto con il potere che la femminilità sfiorisce, agli occhi dell’uomo, ma che si sono evidenziate le potenzialità spesso inespresse della storia femminile. Per oltre vent’anni ha regnato Hathscepsut, a capo di un Egitto ricco e potente grazie ad una educazione paterna tesa all’esercizio del potere. Questa regina non ha mai disdegnato di manifestare una femminilità radiosa, unita ad una energia potente, al punto da lasciare alla storia il suo capolavoro, un tempio a Deir el Bahari, costruito nella regione tebana in una località consacrata alla dea Hathor. Senza bisogno di importunare la sensualità incestuosa di una Semiramide e di una Cleopatra, regine bellissime, il cui mito da Dante a Rossini ha monopolizzato la stessa presenza storiografica, ci possiamo accontentare della immagine orgogliosa, sensuale e potente della Regina Zenobia, glia del deserto di Palmira, nemica di Roma, riferimento del suo popolo. Alla morte del marito sarà lei stessa a prendere il potere e fondare il suo stato, guidando l’esercito in battaglia, riconoscibile per non aver mai svilito i tratti gentili e ammalianti della sua femminilità, la quale la salvò in ne dalla umiliazione che generalmente attendeva i vinti.

E quanta bellezza e grandezza possiamo leggere nei sessanta anni di regno della Regina Vittoria, di cui si conoscono anche dettagli piccanti della sua vita privata, non meno di quanto si parla del nuovo corso che dette all’Inghilterra di ne Ottocento, portandola all’apice della sua forza. Altrettanto altera e avvenente è stata la Regina Maria So a, Regina dei briganti eroina di Gaeta, a cui quel prezioso sinolo di educazione ricevuta e indole ha regalato l’ingresso nel mito prima che nella storia. Cosa ebbe meno del suo Re? non di certo la forza né tantomeno la determinazione. Dettagli del genere la storia ce ne ha fornito e ce ne fornisce tanti, per poi perdere potenza esemplare nella casistica moderna, allorché l’esercizio del potere o si è ridicolizzato o mascolinizzato. Allora sì che si necessita di quote rose, di obbligati spazi garantiti, di corsie privilegiate, atte a preservare il diritto della donna a fare ciò che non saprebbe fare in circostanze naturali. Il problema rimane nel merito, nella divisione geometrica e non aritmetica, nel riconoscere un limite e ave- re l’intelligenza di non oltrepassarlo, rimane soprattutto nella possibilità di accedere a sistemi di educazione che allevano uomini e donne per un nobile fine.

La storia della donna non ha mai avuto bisogno di tutori, essa ha saputo fare nel momento in cui doveva e voleva fare, ha saputo agire e mostrare di non essere meno dell’uomo né di doverlo imitare, perché anche più grande e più forte poteva dimostrarsi. È una storia di successo e non di sconfitta, di cui la “Bambola” di Ibsen in fondo ha esaminato un unico aspetto e neanche quello fondamentale, figlio di un tempo preciso e non dei tempi in genere. È la storia di chi non deve chiedere posso, ma ha la forza e il coraggio di a erma “sono” e di farlo in nome non di una quota, ma di un’anima “aurea”, pari a quella di un uomo, con la quale si può guidare uno Stato, si può educare un figlio, si può continuare ad esercitare la propria ammaliante e connaturata femminilità.

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