Cultura

BASTA CON L’ADDOMESTICAMENTO DI MASSA

26 Ottobre 2021

Il nuovo saggio di Adriano Segatori, “Società tossica e sistema spacciatore”, mette a nudo le patologie socio-culturali di un popolo ridotto ad uno stato di dipendenza cronica. Diventa urgente “rompere la logica di sudditanza caratterizzata dal credo della maggioranza

di Stefano De Rosa

La medicina pubblica è quella disciplina che studia l’uomo nella sua realtà psico-fisica e funzionale in rapporto alle esigenze della vita collettiva e al diritto che la regola. Non ha finalità terapeutiche dirette. Si evolve col progredire – e, al contempo, contribuisce allo sviluppo – delle scienze biologiche, giuridiche e politiche. La medicina pubblica si divide in medicina legale e medicina sociale. Mentre la prima studia la persona umana nei suoi rapporti col diritto, la seconda ha l’obiettivo di individuare tra le persone apparentemente sane quelle che probabilmente sono affette da malattie nel loro gruppo di appartenenza.

Centrale, dunque, nelle finalità della medicina sociale è prevenire l’insorgenza della malattia e così tendere al raggiungimento, al mantenimento e al miglioramento del benessere fisico, psichico e sociale degli individui. La medicina sociale, in sintesi, come ponte tra medicina e società. Tali considerazioni, desumibili da un buon manuale di medicina legale, costituiscono un utile bagaglio cognitivo per districarsi tra la disordinata sovrapposizione di superfetazione burocratico-normativa, princìpi di scienza medica e ragioni della politica, da quasi due anni in pericolosa rotta di collisione.

Si pensi, a titolo di esempio, alla delicata questione dell’obbligatorietà dei trattamenti sanitari, nella cui fattispecie rientra l’obbligo vaccinale. Il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione sancisce che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Tale precetto è stato recepito dall’art. 33 della legge istitutiva dal Servizio Sanitario Nazionale, la n. 833 del 23.12 1978.

Nessuno, cioè, ha il dovere di ricorrere alle cure mediche nel proprio esclusivo interesse; tuttavia l’obbligo può essere imposto – e quindi concepirsi come legittimo – solo ove “il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri” (Corte Costituzionale, sentenza 22.06.1990 n. 307 sulla legittimità della legge n. 51/1966 riguardante l’obbligo di vaccinazione antipoliomelitica per i bambini entro il primo anno di età).

I giudici, in quell’occasione, ritennero costituzionalmente legittimo anche il diritto ad un equo ristoro del danno eventualmente subìto dal soggetto passivo del trattamento. Fondamento di ciò furono (e continuano ad essere) le “stesse ragioni di solidarietà nei rapporti fra ciascuno e la collettività, che legittimano l’imposizione del trattamento sanitario”.

La chiave di lettura per interpretare la perdurante rinuncia governativa all’obbligo vaccinale e l’adozione coatta del green pass non poggia, allora, sulla scarsa autorevolezza della politica, né sulla mancata assunzione di responsabilità da parte di un esecutivo dotato di ampia base democratico-parlamentare. L’ipocrisia dietro la quale è stata costruita la narrazione della nuova tessera di regime è costituita soltanto da una ragione di vile pecunia. Aggirare il secondo comma dell’art. 32 della Costituzione e le sentenze della Consulta, e quindi non imporre in punta di diritto un t.s.o. (l’obbligo vaccinale), ha solo un sottile, ma enorme discrimine pratico: il risparmio di soldi statali per i risarcimenti dei danni, altrimenti dovuti.

Non è forse un caso se il primo capitolo del nuovo libro di Adriano Segatori, “Società tossica e sistema spacciatore” (Edizioni Settimo Sigillo, 2021, pp. 128), si intitoli “Un’ipocrisia chiamata Stato”. E non è certamente una coincidenza se l’Autore abbia inteso avviare la sua critica allo status quo sociale, politico, economico ed istituzionale partendo significativamente dalle parole di Carl Schmitt, secondo il quale: «L’equiparazione di ‘statale’ e ‘politico’ è scorretta ed erronea nella stessa misura in cui Stato e società si compenetrano a vicenda e tutti gli affari fino allora “solo” sociali diventano statali, come accade necessariamente in una comunità organizzata in modo democratico».

Nel solco tracciato dal grande giurista e politologo tedesco, Segatori individua lucidamente il vulnus del nostro tempo: non solo il preoccupante declino dallo Stato alla società, bensì la sua riduzione ad una unidimensionalità tecnico-economica, anzi ad un mix di tecnocrazia e finanza, ammantato di mediocrità. Non già, dunque, un’entità statuale depositaria e custode di autorità, gerarchia, simboli, tradizioni, valori e comune destino, ma un sistema liquido nel quale siamo immersi, interprete di desideri ed istinti di massa, produttore incessante di bisogni mutevoli e beni superflui per soddisfarne le crescenti dipendenze. Un fenomeno che si amplifica e travolge la politica allorquando ai bisogni si sostituiscono le rivendicazioni di diritti à la carte. Insomma, una netta contrapposizione – schmittiana, diremmo – Stato versus sistema.

Già dalle prime pagine del saggio appare chiaro attraverso quale percorso l’Autore intenda accompagnare il lettore nello sviluppare ed illustrare il proprio pensiero; lo fa mettendogli a disposizione – a mo’ di incipit dell’opera – un agile e sintetico schema orientativo con due colonne: quella di sinistra intitolata “Stato”, l’altra, a destra, “Sistema”, con indicate alcune coppie di posizioni antagoniste, tra le quali: sovranità / mondialismo, identità / omologazione, comunità / società, sacralità / materialismo, arte regia / gestione manageriale del governo.

Per Segatori – psichiatra-psicoterapeuta, Ph.D in Scienze Sociali e Comunicazione Simbolica – i termini della colonna di destra sembrano rappresentare le malattie che alterano lo stato di salute e di benessere dell’uomo, della comunità, dello Stato e che ne minano le rispettive fondamenta. I relativi fattori eziologici vengono efficacemente ricondotti al binomio liberalcapitalismo – tecnocrazia. È difatti dall’azione, spesso combinata, di queste due determinanti che si assiste alla progressiva dissoluzione etica, culturale, comunitaria che corrode il ‘politico’, annichilisce i valori e recide i vincoli intergenerazionali.

Circoscrivere, tuttavia, l’eziologia di una malattia ai soli fattori esogeni (nell’analisi svolta dall’Autore, il capitale e la tecnica), imputando esclusivamente ad essi, ad esempio, lo scivolamento dal popolo alla massa, dai doveri ai diritti, dalla Totalità al relativismo, dal controllo politico dell’economia alla soggezione economica della politica, non esaurisce la casistica delle cause.

La morsa tra tecnologia ed economia si rivela indubbiamente capace di stritolare libertà e pensiero in modalità fino a pochi anni fa impensabili. Il #metoo, la cancel culture, la rivisitazione gender di programmi scolastici ed universitari, la messa all’indice di prodotti alimentari e tradizioni culinarie, l’idiozia della versione “femminile” di 007, l’arte vilipesa, i messaggi pubblicitari sottilmente antimaschili rappresentano solo alcune delle punte infette di iceberg mentalmente corrotti. Gli strumenti della invasiva tecnologia digitale costituiscono le scintillanti lame delle ghigliottine dell’etica immanentista: guai ad esprimere, attraverso di essi, opinioni su simili aberrazioni difformi dalla poltiglia culturalmente egemonica.

Sull’altro fronte, i finanziamenti pubblici e privati vengono ormai convogliati solo su progetti ed iniziative conformi al pensiero unico; i soli capaci, godendo di buona stampa e copertura politica, di massimizzare i profitti e remunerare il capitale transnazionale senza incorrere nelle reti della censura ideologica. Non è un caso che in tempi pseudo-normali di ius soli, ddl Zan, liberalizzazioni di droghe, suicidio assistito, nozze omosessuali e porti aperti spot, inserzioni e slogan pubblicitari tendano a valorizzare cultura e colori arcobaleno, mediocrità dei messaggi, buonismo livellatore, retorica dell’accoglienza, profanazione della natura.

La recente esemplare, pur severa, sentenza di condanna in primo grado per una consolidata prassi assurta a modello di accoglienza di immigrazione indiscriminata è stata unanimemente stigmatizzata dal tossico circuito politico-giornalistico di benpensanti ed intellò in servizio permanente effettivo. Quello stesso circuito sempre pronto a dichiararsi rispettoso delle sentenze giudiziarie a senso unico emesse con mirabile sincronismo.

Parimenti, la propensione di certa politica e giornalismo nel disertare analisi internazionali e studi strategici – con la correlata considerazione di rapporti di forza e di potere geo-economico – privilegiando discettare di ambientalismo e sostenibilità sembra confermare la preferenza per il ricorso a sostanze mediaticamente psicotrope per indurre – come recita il sottotitolo del libro – all’intossicazione e all’addomesticamento di massa.

Doveroso ed opportuno – per riprendere il nostro ragionamento – è ricomprendere anche i preoccupanti fattori endogeni, da intendere come incapacità, o perduta capacità, dell’organismo – individuale o sociale – di resistere o reagire agli agenti patogeni. Si assiste, così, ad un paradosso. Da una parte, chi si riconosce nei valori contenuti nella summenzionata colonna di sinistra finisce spesso per adottare meccanismi di autocensura, per ottemperare ai diktat del politicamente corretto e non incorrere nelle restrizioni penali e disciplinari imposte dalla codificazione perbenista.

Dall’altra, il libertinaggio dei diritti, l’abolizione del senso del limite. “Niente più regole da rispettare, codici ai quali aderire e narrazioni da condividere, ma una diffusione indistinta i solitarie pulsioni senza distinzione tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra naturale e artificiale. La trasgressione – sostiene Segatori – è diventata la norma paradossale di una inedita realtà. In questo modo le dipendenze diventano lo strumento anestetizzante del controllo delle masse”.

Se – come insegna Carl Schmitt – sovrano è chi decide sullo stato di eccezione, è facile immaginare quanto il “sistema spacciatore” abbia tutto l’interesse, per tale fine, ad istituzionalizzare l’emergenza. Non solo, beninteso, quella pandemica legata alle vicende del virus cinese. Gli scivolamenti sopra evocati finiscono ovviamente per coinvolgere e travolgere la politica. Il binomio paventato da Segatori ha recentemente – e stavolta al massimo livello – registrato una accelerazione nell’irruzione della tecno-finanza a Palazzo Chigi.

Quella sanitaria, dunque, risulta strumentale alla perpetua emergenza economica e finanziaria. I piani miliardari di liquidità del piano di aiuti Ue e le stringenti tempistiche associate altro non produrrebbero se non effetti comparabili a quelli generati dalle sostanze stupefacenti. Il fenomeno della tolerance e quello della dipendenza fisica, che aumenta con l’incremento del dosaggio, costituiranno non tanto le conseguenze quanto le condizioni per il perpetuarsi dello stato di dipendenza in un perenne stato di eccezione.

Lo spirito comunitario ed il senso identitario – seguendo il filo conduttore dell’Autore – devono rappresentare gli anticorpi da frapporre alla deriva antinazionale ed antipopolare per “rispondere con la spiritualità della vocazione e la creazione di un nuovo senso e di un nuovo ordine”. Autonomia di pensiero ed esperienza del sacro possono e debbono porsi alla base di un rinnovato percorso di virtù.

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