Attualità

La chiamano città intelligente, per noi è solo una città senza identità.

12 Dicembre 2019

Le chiamano smart cities, città intelligenti e le ambiscono i Governi di tutto il mondo, da Occidente a Oriente. Sono il prodotto finale e ben riuscito della globalizzazione, cittadine ordinate che pensano il loro sviluppo sul fondamento delle ICT (Information and Communication Technology) quale fattore di “intelligenza urbana”. Nel 2014 la Comunità Europea ha introdotto nella propria policy la definizione omogenea di smart city pubblicando la “Mapping smart city EU”. Il report, mappando le esperienze cittadine comunitarie, ha tentato una definizione standard di smart city basata su 6 pilastri fondamentali: Smart Governance, Smart Economy, Smart Mobility, Smart Environment, Smart People, Smart Living. Perché una città migliori la qualità di vita dei cittadini, secondo i modelli elaborati dal gruppo di Giffinger, deve avere in ambito ambientale la presenza di politiche e tecnologie a favore del risparmio energetico e dell’utilizzo di fonti rinnovabili. Nel campo della mobilità deve garantire trasporti accessibili per tutti e un impatto ambientale basso; nella Governance deve garantire trasparenza e partecipazione mediante il rafforzamento dei servizi online. In economia la parola chiave è lavoro flessibile e nel capitale umano e sociale l’adozione di politiche per la formazione continua. In tal modo il sesto asse del paradigma smart, ovvero “qualità della vita”, non può non richiamare la tutela della salute pubblica, della sicurezza individuale, addirittura di politiche abitative di qualità e infine del sostegno alla coesione sociale. Ovviamente per ragioni di spazio ho semplificato la descrizione delle caratteristiche degli assi di ricerca, che invece il professor Silvio Bolognini, accademico di pregio dell’Università e-Campus di Milano ha descritto ampiamente nei suoi testi sulle smart city, Epistemologia e politica del diritto nella prospettiva delle “smart cities” e anche Dalla smart city alla Human smart city e oltre.
Come nasce l’idea di lavorare alla città “intelligente”? Dalle richieste della Fondazione Clinton che nel 2005 ha invitato la CISCO, una multinazionale leader nel settore informatico a studiare la città del futuro, quella che nei film americani, talvolta in parodia, talvolta nella sua concreta drammaticità, è stata descritta come città robotizzata e senza anima, ambiente desolato in cui i consumatori, “zombie”, si andavano sempre più sostituendo ai cittadini.

La città rimane del resto la sede in cui il mercato globale può e vuole vedere i suoi frutti immediati; nella città si registrano le maggiori emissioni di CO2 e sempre nella città i governi devono affrontare i drammi della disoccupazione e dell’isolamento sociale. Le campagne, la provincia, con il loro portato di tradizioni dure a morire, con la lentezza della vita, non si prestano al gioco globalizzante. Le metropoli del futuro invece richiamano l’attenzione dei giovani millennials e non solo, le loro luci abbaglianti, il loro wifi sempre accessibile e gratuito, la loro moda omologante sono i nuovi sinonimi di civiltà. A tutto questo, che si muove nell’ombra dei palazzi governativi degli Stati e nei documenti spesso illeggibili comunitari, nessun politico si è mai opposto, anche perché la strategia vincente è stata appunto spoliticizzare la tecnologia smart. Solo in tal modo tutti i governi del mondo si sarebbero omologati al modello oggettivo degli assi interpretativi da accogliere favorevolmente e supinamente. Un monoteismo quello delle ICT a cui appare impossibile opporsi senza incappare nell’accusa di conservatorismo e oscurantismo, eppure non è la tecnologia che andrebbe osteggiata, ma l’utilizzo libero e incondizionato da una ispirazione e una direzione politica della tecnologia. È soprattutto il primato dell’economia sull’idea politica a condannare qualsiasi azione anche apparentemente vantaggiosa per il cittadino, a camuffarsi in opportunità per pochi e disastro per i più. È la parola d’ordine dell’omologazione a non convincere i difensori della identità, che nella città del futuro avranno il loro terreno fertile di scontro alla globalizzazione.

Marina Simeone

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    1. La città ideale cui ognuno di noi aspira è sicuramente quella prospettata da Platone, ma sappiamo che rimane ideale. Qui non s tratta di cercare una forma ideale di città, ma di contrastare un sordo tecnologismo che ci promette benessere, con una imperfezione identitaria più rispondente alla natura dell’uomo.

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