Editoria identitaria

Il bianco sole dei vinti

14 Giugno 2020

L’epopea sudista e la guerra di secessione

Edizione Settimo Sigillo

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In un momento in cui vengono imbrattate e offese statue e memoria di chi ha combattuto nella guerra di secessione americana dalla parte vinta, perché accusate di razzismo dalla vulgata politicamente corretta è opportuno fare chiarezza.

Cosa sia stata la guerra di secessione storicamente e quali sono stati i suoi veri e non presunti risvolti sociali possiamo leggerlo nelle poetiche pagine di Dominique Venner, “Il Bianco sole dei vinti”.

All’alba del 12 Aprile del 1861 scoppia la prima granata della guerra di Secessione. Un conflitto lungo quattro anni e sanguinoso come pochi altri; le perdite risulteranno superiori di un terzo a quelle subite dagli USA durante la Seconda Guerra mondiale, 618.000 contro 407.000, per una popolazione sette volte meno numerosa.

Nel 1861, gli Stati Uniti non firmarono una sola nazione, ma due, che sono perfettamente distinte, il Sud e Nord. Tutto le oppone: popolo, tradizioni, civiltà, clima, economia, paesaggio. Il sud delle bianche piantagioni assopite nel loro scrigno di magnolie, i campi di cotone e la dolcezza del vivere, i gentlemen raffinati e le ragazze in crinolina, ma anche della maledizione della schiavitù. In questa guerra impari lo storico racconta la risolutezza e il genio militare del generale LEE, l’ardore di Stonewall Jackson o di Brauregard, l’audacia dei forzatori di blocco, la temerarietà dei raids della cavalleria, l’eroismo delle donne sudiste, che niente potranno contro la volontà di conquista di un Nord progressista ben armato. Il Sud meno popoloso dell’odierna Svizzera alla fine soccomberà sotto il numero, ma il suo sogno assassinato continua a vivere nel cuore degli uomini generosi.

Il sud era il popolo stesso e combatteva la propria esistenza come Nazione, per la propria indipendenza, per i suoi campi e i suoi focolari”

Maggiore Scheibert, ufficiale prussiano distaccato al segui delle armate sudiste.

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  1. Gentilissima direttrice,
    consenti a un vecchio cavaliere della tavola rotonda, oramai con i capelli bianchi e non certo in grado di impugnare la spada con l’ardore dei tempi andati, di manifestare il suo pacato pensiero su vicende lontane nel tempo, ma mai “inattuali”.
    Il testo da te segnalato, edito dal Settimo Sigillo, riposa nella mia libreria da ben 45 anni nella versione francese (Editions de la Table Ronde) e da 39 anni nella versione italiana (Edizioni Akropolis, Napoli, con traduzione dal francese di Enrico Nistri (ventiduenne) e Marco Tarchi (ventitreenne e già leader indiscusso della “parte nobile” della Destra italiana, ossia di quella che è stata sistematicamente fagocitata e messa a tacere da soggetti malsani, per nessuna ragione meritevoli di essere ascritti all’universo destrorso).
    La lettura di quello che allora consideravo un saggio generò sentimenti non dissimili da quelli che traspaiono nella breve nota di presentazione.
    Il tempo, poi, mi ha insegnato a discernere il grano dal loglio e quindi, proprio in virtù di questa “capacità”, sento il dovere di scrivere che non ha nessun senso, oggi, presentare quel testo in modo enfatico. Rileggendolo, infatti – e il caso vuole che l’abbia fatto proprio negli ultimi mesi – mi fa sorridere compassionevolmente per i pregressi apprezzamenti, dei quali mi vergogno un po’, alla pari di tante altre cose.
    Cara direttrice, non vi era nulla di gentile ed eroico negli stati confederati, e nemmeno di generoso. Solo una letteratura partigiana e menzognera può trovare elementi giustificativi di una terribile realtà sociale. E’ falso ciò che sostiene Venner relativamente alla fedeltà degli schiavi ai loro padroni e ovviamente la “Mommy” di quel polpettone di film che è Via col vento non trova alcun riscontro effettivo nella realtà. Vi erano senz’altro “schiavi” che manifestavano sentimenti affabili nei confronti dei loro “padroni”, ma ciò era dovuto precipuamente a quelle dinamiche mentali che , talvolta, inducono ad accettare una drammatica realtà per andare avanti. Un sentimento affettuoso generava “l’illusione” di essere “un poco liberi” e aiutava a sopravvivere… ma è ben chiaro anche da come descrivo questo aspetto quanto il fenomeno fosse triste e fallace. Lee sarà anche stato un “genio militare”, anche se ho sempre avuto il sospetto che qualcuno abbia fatto confusione con il suo effettivo ruolo, quando era tenente, di “ufficiale del Genio”, ma è stato anche uno sporco schiavista, non alieno da comportamenti ancora più deprecabili, quali le frustate alle donne. La società era malata e non poco. E purtroppo nella stessa area non è che oggi le cose siano cambiate più di tanto, almeno in termini di mentalità.

    Ho avuto modo di conoscere Venner nel 1982 ( ossia nel periodo in cui o ero a Parigi o la sognavo con nostalgia), restandone senz’altro affascinato, come tanti. Il tempo, però, è una buona medicina che disperde la nebbia e rende ben nitidi i paesaggi che si dipanano al di là di esse, spesso smentendo le pregresse “visioni immaginifiche”.
    Ciò premesso è anche vero che dall’altra parte non furono e non sono rose e fiori. Ma questo, evidentemente, è un altro discorso, per il quale vale un severo monito: “Una giusta causa difesa in modo sbagliato, con tesi sbagliate, perde irrimediabilmente di efficacia, fino a trasformarsi in una causa ingiusta.

    Con rinnovato affetto e stima

    lino lavorgna

    1. Gentilissimo Lino,
      accolgo sempre con piacere i tuoi commenti, riconoscendo la profondità di un pensiero costruito su esperienza e studio. Concordo sul non innalzare altari né perdersi in pericolose idolatrie riguardanti situazioni limite come quella della guerra settecentesca e della compromettente situazione schiavista. Quello che ho gradito e non poco del libro in questione è il voler mostrare la salvaguardia di un sud legato in ogni caso a determinate tradizioni di vita, di cui certo anche lo schiavismo ha fatto parte e un nord industrializzato, progressista e ugualmente schiavista, ma in altro modo. Un nord che ha vinto ideologicamente e ha costruito o contribuito a costruire l’America che oggi conosciamo e che a me non piace. I toni di Venner sono esaltanti per il suo modo di vedere la storia, prendendo una posizione, rimanendo molto poco oggettivo e scientifico e mostrandosi tanto appassionato, al punto da toccare lo spazio eterno del mito. Ma il mito serve caro Lino e serve in una società disillusa che stenta a comprendere da che parte stare. E’ esemplare. Rinnovo anche io la mia stima.
      Marina Simeone

  2. Non a caso ho scritto che dall’altra parte non furono e non sono rose e fiori… ( e il caso vuole che questo argomento sarà compiutamente trattato nel prossimo numero di Confini e con grande piacere ti invierò il mio contributo in anteprima). In quanto al mito, con me, ovviamente, sfondi una porta aperta. Ma dobbiamo stare attenti: il mito va ricercato al di fuori della storia, perché la storia sporca tutto. Se così non fosse non avrei scelto di chiamarmi Galvanor da Camelot, (www.galvanor.wordpress.com) mutuando me stesso in un cavaliere della tavola rotonda mai esistito.
    Quando ci vedremo ti racconterò molte cose di Dominique Venner.

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