di Adolfo Durazzini
Il cavaliere, archetipo eterno dei popoli eurasiatici.
Tra le tante figure archetipiche che il mondo tradizionale ha avuto a disposizione, quella che più ha rappresentato la somma valoriale, destinata a rimanere nella memoria, è indubbiamente la figura del cavaliere.
Abbiamo avuto a che fare con molteplici scritti in ambito, molteplici ricerche hanno corroborato quasi definitivamente questa figura, ormai masticata e rimasticata, almeno così si può pensare.
Intanto cos’è un cavaliere? Stando all’etimo italiano, è un uomo che cavalca, fin qui l’interpretazione può rimanere al primo grado, quello di semplicemente cavalcare un cavallo, fino ad arrivare a quelle più metafisiche, come quella di ricercatore solitario, anche perché, a cavallo, al massimo si va in due, come i Templari…
Stando all’etimo latino, l’eques rappresenta soltanto un particolare soldato armato di lancia e spada lunga, quindi non di pilum, che combatte esclusivamente a cavallo: il suo destriero non ha staffe e rappresenta più un mezzo di locomozione che una prosecuzione del corpo umano, ovvero, è uno strumento. Le popolazioni che usavano addomesticare i cavalli erano per lo più i dauni e i veneti, non tanto i latini, come si può notare dalla scarsezza di equipaggiamenti cavallerizzi nel primo periodo della Roma antica.
In generale, nel mondo germanico e celtico rimaniamo all’interno di una concezione utilitaristica dell’animale in questione. I germani erano per lo più fanti, armati di mazze, asce monopenne, mentre per i goti e i vichinghi per lo più spade lunghe.
Nel panorama eurasiatico, inteso come territorio continentale, l’unica testimonianza di interi corpi d’armata fondati sull’arma cavallerizza, erano ovviamente gli sciti. Questa antica popolazione, per alcuni studiosi e ricercatori, pare presentarsi come la sacca amniotica delle varie popolazioni adiacenti: come se da un ventre materno, fossero ogni tanto esplose migrazioni che via via crearono i massimi insediamenti quali la Persia, l’India vedica e altre popolazioni come quella che formò il regno di Mitanni, o persino le nostre popolazioni “europee”.
Gli sciti conoscevano la staffa, la sella e usavano cavalli corazzati, che venivano inumati nelle tombe assieme ai loro “padroni”. Tra le popolazioni scitiche non v’è ben chiaro cosa ci fosse di indoeuropeo, contrariamente a ciò che purtroppo Dumézil ebbe a insegnarci: la lingua certo, alto-iranica, molto simile all’iranico dell’ovest, ovvero a quella zona che maggiormente risentiva di influssi originali scitici, il Khorasan, la Battriana, e il Gandhara. Ricordiamoci che queste tre aree, a cavallo tra l’attuale nord-est iraniano, l’Afghanistan, il Turkmenistan e il Pamir, furono proprio le zone in cui si divisero due concezioni cosmiche diversissime: le Gāthā e i Veda!
Entrambi trasmessi in lingue molto simili, a tal punto che si potevano capire a vicenda. Le Gāthā diedero vita allo zoroastrismo, dove la concezione dualistica e quella tripartita, tipiche del mondo ariano (termine che si limita a tribù, è ben ricordarlo!) annoveravano un concetto del tutto nuovo, almeno nella storiografia, quello della salvezza, quindi del messaggio profetico, ci scusiamo della ridondanza.
I Veda, invece, si limitarono, ed è un eufemismo, a incentrare la vita dell’uomo nello studio e nelle pratiche rituali, permettendo una serie infinitesimale di nascite, rinascite, liberazioni. Il mondo vedico ha aperto insomma il varco al guruismo, oltre che ovviamente al brahmanesimo, intesi come uniti in un pluralismo di forme e concetti che solo l’India può rappresentare con la sua vasta conoscenza.
Lo zoroastrismo diventa religione ufficiale dell’impero persiano, liberatore del popolo “eletto”. Una religione molto semplice, dove la parola, creatrice allo stesso modo che per i vedici, diventa contratto, Mithra diventa legame, diventa giustizia. Proprio il concetto di giustizia come somma massima, del resto concettualmente quasi del tutto assente sia nel mondo vedico che nel mondo occidentale, diventa invece la parte più importante dello zoroastrismo e dell’agire dello Shahanshah: retta parola, retto pensiero, retta azione. Queste tre parole immortali, assieme ad amərətāt, concetto/fenomeno di immortalità, o aṃrta vedica, sarà l’appannaggio del sovrano dell’Aryā-Vaejo, origine dello khwarenah , ovvero la potenza del Signore che scende sui giusti.
Questi concetti di equanimità, giustizia, pace, purezza, mantenimento della parola data, nascono all’ombra di un fuoco acceso da Zarathustra Spitaman o Spentaman, quando ancora l’Europa non esisteva. Ispirando, in un primo momento, parte dei cavalieri Atarvan, che circolavano in quelle aride regioni della Sogdiana e della Battriana. Quindi, possiamo affermare che il concetto di cavalleria, come la intendiamo nel medioevo, ha chiare assonanze iraniche da una parte, zoroastriane dall’altra.
L’abramismo, meglio ancora dell’ebraismo, annovera in sé delle caste: i Leviti ad esempio sarebbero esclusivamente sacerdoti. In breve sappiamo che alcune frange dell’ebraismo, non farisaico e nemmeno talmudico, fossero rappresentate da sacerdoti-guerrieri: Davide, Salomone. E che questi facevano derivare il proprio potere dal patto con il sommo Re-Sacerdote, Melqitsedeq, o meglio il Re Giusto, o Savio. Se Melqitsedeq non era ebreo, come del resto Khizr, allora di che religione era?
Melqitsedeq sta al centro del mondo, Khizr in superficie dell’acqua.
La cosa particolare è che questi nomi li troviamo con enfasi in Etiopia e Somalia, dove la religiosità è improntata di culti primordiali di cui sappiamo ben poco, ma che risultano dare importanza non scontata a Melqitsedeq, a Khizr, a Balqis, a Elia o San Giorgio. Come anche il culto del Graal e dell’Arca dell’Alleanza risiedono con maggior fragore nelle valli di Axum in Etiopia e tra gli scritti del Libro di Enoch etiope…
Abbiamo avuto la cavalleria medievale, molto successiva a quell’islamica. Come mai? Dal momento che gli europei conoscevano il cavallo già in antichità, probabilmente è possibile che non legassero il concetto di cavallerizzo con quello di cavalierato. Ci vorranno gli arabi, non tanto i bizantini, a dare una svolta epocale per l’Europa delle future cattedrali.
La futuwwah : il cavalierato islamico tra etica e libertà.
Furūsiyya, in arabo è il termine con il quale passa alla storia la semplice cavalleria preislamica. Al-Furūs, è il cavallo. Nell’antichità il nome designava una particolare figura di errante a cavallo, amante del vino, dei giochi d’azzardo, dei duelli, dell’amore e della poesia spontanea, non letteraria.
Vi si annoverano tanti racconti, tanti poemi di notevole bellezza, che narrano storie che potrebbero sembrarci veramente già sentite, e infatti, forse è così… Il furūs, non è ancora il fatā, gli manca qualcosa che imparerà solo nel 622 dell’Egira.
La futuwwah, o javânmardi in persiano, è la cavalleria intesa come cavalierato, fa riferimento sia a un’etica militare che a un fenomeno sociale con la sua storia, le sue istituzioni, le sue tradizioni e la sua letteratura. Essa si caratterizza nel mondo islamico per essere soprattutto una pratica di realizzazione spirituale, come lo asserisce anche Layla Khalifa: «Questa nozione araba è molto antica, precedente all’Islam, e il Corano l’ha adottata per darle una nuova dimensione. In arabo, questo termine rimanda alle nozioni di cavalleria (furûsiyya) ma anche di generosità (karam), di gioventù (vigore) e di maturità (rujûliyya)».
I giovani eroi cavalieri che si rifugiarono nella caverna (Corano) si sono piazzati sotto la protezione di Dio e sono chiamati fityatu. Amanullah de Vos, sufi francese, afferma «i fityatu, sono coloro che seguono la via della futuwwah, la quale include la nobiltà, la fedeltà al patto, il coraggio e la vir-tù, la giovinezza eterna. Questa affermazione è confermata dalla loro richiesta di rettitudine nello stesso versetto riferito alla caverna». Il grande Ibn ‘Arabī ricorda che «il padre fondatore della futuwwah è Ibrahim (Abramo), Abu-l-Fityan, colui che nel suo jihad ruppe gli idoli e insegnava l’ospitalità». Ibn ‘Arabī identifica i Fityan della caverna come i compagni del Mahdi.
Sulla stessa scia è stato Muhammad: «Sono Fatā figlio di Fatā (allusione a Ibrahim/Abramo) fratello del Fatā (allusione all’imam ‘Alī)», e «Nessun Fatā se non ‘Alī». Per carpirne la portata basti ricordare che il Profeta rappresenta nell’ideale l’esempio stesso dell’uomo realizzato con un comportamento e uno stile impeccabili, inoltre sapere che ‘Alī era conosciuto per la sua prossimità a lui e il suo grande coraggio, la sua saggezza, la sua conoscenza e il suo attaccamento alla giustizia, ci fa capire quanto egli sia il cavaliere per eccellenza. Futuwwah, fatā, fityatu, fityan, in arabo hanno la stessa radice (ف تا).
«per eccellenza l’uomo libero (Hurr) colui che si è affrancato dalla schiavitù dell’epoca in cui vive»
Ecco qua dunque una via dove si mischiano rettitudine, fratellanza, coraggio, giustizia, ospitalità e nobiltà di carattere. Precisiamo che tra i cavalieri della Futuwah vi furono anche le donne, come la coraggiosa Fatima, figlia del Profeta e sposa di ‘Alī, ma anche «Karima di Merw (morta nel 1070). Fu stata, secondo Massignon, lei a mettere in relazione la “futuwwah femminile“ come l’avrebbe fondata Khadidja al-Djahniyya (morta nel 1067) ».
La lotta del fatā è forse non senza legami con la nozione qabbalistica del Tiqqun come ci spiega Ivan Segré, ovvero di rendere il mondo abitabile come lo era all’origine della creazione divina, di restituirgli la sua abitabilità. Chiaro che in questa ottica l’asservimento e l’oppressione di certo ne impediscono una degna abitabilità. Perciò questa lotta contraddistinse ogni cavaliere, al di là dell’appartenenza religiosa, territoriale o razziale; poiché questi, degno rappresentante del mondo dell’origine, del sublime Eden, o della leggendaria Thule o Avalon, non poteva che essere in lotta sempiterna con il mondo del divenire, mantenendosi, lui, il cavaliere, eternamente fedele a sé stesso, come Insān-al-Kāmil, ovvero uomo adamitico, Manu. Il cavaliere, oggi ha in sé la propria legge, in seno a quel vasto mondo primordiale che non si altera per via della sua diversa dimensione con il nostro.
Il cavaliere, è per antonomasia l’errante, il viandante, l’eterno giovane che, come dice Ibn ‘Arabī è: «per eccellenza l’uomo libero (Hurr) colui che si è affrancato dalla schiavitù dell’epoca in cui vive». Parafrasando Ernst Jünger, è colui che ben conosce le leggi del primordiale, che non si è fatto prendere dalle leggi del tempo in cui vive, o come meglio direbbe Mahmoud Mohamed Taha, politico e filosofo sudanese:« L’Islam ultimo rivela la soglia massima dello stato delle individualità. Quest’ultime possono essere rintracciate soltanto quando si è divisi in se stessi. Quando lo spirito è cosciente non è più in conflitto con lo spirito inconscio, l’unità dell’essere è compiuta. Quest’ultima si caratterizza con la serenità del cuore, la chiarezza del pensiero e la bellezza del corpo, realizzando così una vita intellettuale e sentimentale senza pari. La restaurazione dell’unità dell’essere (del tawḥīd) si riassume, per il praticante, a pensare come lo desidera, a dire quello che pensa e a agire secondo sua convinzione. Questo è lo scopo dell’Islam».