Argonauti

Il tempo, la metropoli e il bosco

5 Marzo 2021

di Alessandro Viviani

Noi figli del terzo millennio abitiamo sempre più compiutamente la virtualità e siamo cresciuti in un tempo misurato in click. L’itinerario quasi rituale con il quale i nostri vecchi si recavano in città ad acquistare un bene necessario – che sarebbe durato loro dalla culla alla tomba – è stato sostituito da un veloce carrello virtuale su Amazon. La stessa esperienza che facciamo a contatto con la realtà esterna è più simile ad un rapidissimo trasferimento di dati lungo i circuiti di un cavo USB, che non ad un essere-nel-mondo autentico e partecipativo. Non sappiamo che cosa siano Aion e Kairos: conosciamo solo Kronos – il tempo cronologico della morte delle cose – e lo abbiamo dotato di un razzo supersonico: abbiamo, in sostanza, perso dimestichezza con la dimensione dell’Eternità.

Non c’è traccia, in queste considerazioni, di pedante moralismo e pessimismo; né tantomeno di una sorta di neo-luddismo contro la tecnologia: semplicemente guardiamo, con distaccato realismo, l’effettivo cambio paradigmatico della società. Nell’architettura, ad esempio, noi vediamo ponti che dopo cinquant’anni crollano stanchi, ed acquedotti romani – espressione di una Kultur certamente superiore – testimoniare l’eternità e la sfida al tempo attraverso la propria ontologica e perenne
solidità. Nelle grandi epoche organiche della storia, la costruzione architettonica e la creazione dell’arte erano il servizio prestato ad una fede, nonché tensione verso un alto principio ed anelito alla totalità e all’idea: ogni cosa era simbolo, termine che etimologicamente significa, infatti, legare insieme.

Templi, cattedrali, ponti, e tombe sancivano l’autonomia dell’Assoluto nei confronti del tempo. In altre parole, l’architettura pretendeva di agire sul piano dell’essere, non su quello del divenire. In un’epoca disorganica, al contrario, l’uomo (microcosmo) è un atomo; la Città-Stato (mesocosmo) non è più Polis, ma un freddo mostro burocratico – per dirla con il filosofo della
volontà di potenza – e il macrocosmo è una parola sconosciuta. In questo momento discendente del ciclo finale ed inesausto della civilizzazione, in senso spengleriano, il problema architettonico si esaurisce, nella migliore delle ipotesi, nella prassi tecnica e funzionale; nella peggiore, essa
degenera nell’accozzaglia polimorfa e disarmonica di blocchi “relativi” e del tutto casuali.
Raramente quando camminiamo in città distogliamo lo sguardo dal proiettore della nuova realtà ufficiale – lo smartphone – ma quando lo facciamo, possiamo notare come le forme architettoniche siano incapaci non solo di resistere al tempo, ma anche di superare la sfera individuale
dell’architetto il quale – non potendo tendere ad assoluti in un’epoca di crepuscolo degli idoli ed oblio dell’essere – non ha che da attingere a ciò che reca dentro di sé: spesso proiettando all’esterno pulsioni egoiche irrisolte e, in ogni caso, del tutto personali.

Dietro all’assenza di plasticità e all’immutabilità architettonica e severa di una Sfinge non vi era solo una motivazione tecnico/materiale, bensì un principio superiore: l’indipendenza assoluta dal divenire e la volontà di
permanere in eterno. Oggi, epoca liquida in cui il passaggio tra il tutto ed il contrario di tutto accade senza nessuna soluzione di continuità l’immutabilità è diventata un disvalore: sinonimo di immobilismo e quindi ostacolo alla marcia trionfante del progresso, in un mondo che, secondo
alcuni, cambia continuamente. Con questo non vogliamo dire che il bene dell’umanità sia solo dietro piuttosto che tutto davanti: rimarremmo così pur sempre nella prospettiva storica di “Abramo” – cioè lineare e finalistica – piuttosto che in quella assai gradita di Ulisse, che parte da Itaca e ritorna ad Itaca in modo circolare. Crediamo piuttosto nella complementarietà tra
Tradizione e Modernità, che sono rispettivamente il piano verticale ed orizzontale dell’esistenza.

Nessuno dei due può essere assolutizzato. Il risultato dell’assolutizzazione del piano orizzontale, per quanto riguarda il paesaggio, è la metropoli moderna. Rubando le parole ad Oswald Spengler: «la metropoli porta con sé il cosmopolitismo in luogo della patria, il freddo senso pratico in luogo del
rispetto per la tradizione, l’irreligiosità scientista in luogo della fede religiosa.

Nella metropoli la potenza più forte è il denaro». La città moderna, secondo La Favola delle Api di Mandeville, prospera quando ai vizi peggiori dell’umanità sia lasciato libero corso affinché essi si trasformino in
virtù per la prosperità del capitalismo. L’inquinamento ed i rifiuti in eccesso, secondo l’interpretazione del filosofo olandese, sono certo fattori negativi, ma positivi in quanto sono la conferma del moto incessante verso il progresso salvifico. Potremmo dire la metropoli sia, quindi,
la forma esteriore, immanente ed inquinata di un uomo moderno inquinato spiritualmente. Se l’estetica fonda l’etica, allora la metropoli segue la dittatura della bruttezza e del breve-termine; oppure, come detto sopra, il gesto creativo ma irriverente di architetti distaccati dalla ricerca della
bellezza e dell’armonia. Periferie grigie, edifici senza uno stile comune assemblati nella medesima area; quartieri popolari in stato di abbandono – caratterizzati, peraltro, dalla difficoltà nella convivenza tra gli strati meno abbienti della popolazione, la quale è culturalmente sempre più eterogenea.

Nella città moderna, il centro ha ereditato ben poco dal concetto classico di Agorà – che era il fulcro della vita sociale della comunità; al contrario, il centro sembra animato esclusivamente dalle insegne pubblicitarie dei grandi centri commerciali. L’habitat non è più concepito per vivere,
bensì per sopravvivere in un ambiente urbano anonimo, governato da quella mega-macchina che conosce esclusivamente la legge del profitto. L’uomo ha perduto la dimensione del luogo: si veda, a tal proposito, la distinzione tra luogo e non-luogo operata da Marc Augé. Distaccare l’architettura da una Weltanschauung (visione complessiva del mondo) lasciando libero corso al caos del relativismo, significa affermare l’impotenza della propria Civiltà: sarebbe come lasciare che sul proprio corpo barba e capelli crescessero ad indefinito senza nessuna direzione.

L’architettura è volontà di potenza creatrice nella misura in cui l’atto di costruire dà una forma alla materia informe, elevandola verso un’idea superiore e meta-temporale; contro il tempo e contro la stessa forza di gravità – che tutto trascina verso il basso – si erge la rudezza granitica delle colonne doriche. Non è un caso se Nietzsche definì l’architettura «una eloquenza del potere mediante le forme». Ricorrendo sempre al
realismo eroico jungeriano, noi non crediamo, a questo punto della civilizzazione, che l’architettura in Occidente possa tornare ad esprimere una Weltanschauung (o forse sì, ma sicuramente non la nostra); non crediamo di poter attualmente governare un processo “archeo-futurista”: nel nostro modesto intento vi era solo la volontà di indurre a pensare altrimenti, ad avere come riferimento un paradigma alternativo in cui ogni cosa prenda il suo posto secondo una gerarchia: adottando una
visione qualitativa, organica, agonistica e metafisica dell’esistenza.

Non illudiamoci sulla possibilità di invertire il moto della grande ruota – né illudiamoci che si possa accelerare, concorrendo noi stessi al declino – ma iniziamo già ad agire nella prospettiva del “nuovo inizio”. Innanzitutto,
impariamo a vivere nella metropoli lucidamente. In Cavalcare la Tigre, Julius Evola consiglia di rimanere assolutamente presenti a sé stessi, tanto in cima ad una vetta rocciosa quanto in un locale notturno americano di periferia. Analogamente, Ernst Junger è qui per insegnarci come il passaggio al bosco sia una condizione interiore: possiamo trovare il bosco anche nella metropoli. Compiuto questo esercizio stoico, però, con lo stesso distaccato atteggiamento possiamo anche sperimentare l’asprezza meravigliosa e terribile della Natura, del vero bosco: non ci daremo alla natura come ritorno ad uno stadio pre-personale e tribale da buoni selvaggi, ma neanche adotteremo l’atteggiamento del moderno tecnico manipolatore che guardando gli alberi scorge, immediatamente, solo tavoli e sedie (certo utili, ma la vita non si esaurisce tutta qui!). La natura, dimora dell’essere, può essere anche il luogo in cui sperimentare concretamente il nuovo inizio.

Ci sono molti di noi che leggono con dedizione i testi di formazione, ma sempre con una latente ansia di terminarli per correre, immediatamente, ad assumere i principi che si vanno leggendo e che, in fondo, erano già dentro di noi come l’eco di una reminiscenza platonica. Ci è sembrata molto
interessante, sotto questo profilo, la singolare visione dello scrittore francese Sylvain Tesson che, senza fronzoli, ha applicato letteralmente e materialmente il passaggio al bosco, sperimentando la vita di pesca e taglio della legna nella taiga siberiana. Proprio nell’immobilità del bosco,
l’avventuriero ha ritrovato la pace. Tesson, come noi, è orfano della possibilità di agire in grande nel mondo; è un uomo che Savitri Devi avrebbe probabilmente incluso tra coloro che si oppongono
allo spirito del tempo ma, in realtà, Tesson sembra essere del tutto indipendente dal tempo: forse perché ha preso dimestichezza con la dimensione dell’eterno, o forse perché le giornate nella taiga
sono piuttosto lunghe. Non vogliamo invitare i lettori a trasferirsi seduta stante in una capanna nel bosco – anche perché molto spesso non si fa altro che portare lo spirito della metropoli anche nella natura – ma, piuttosto, ad assumere un diverso atteggiamento anzitutto interiore; senza precludersi
la possibilità di sperimentare letteralmente il bosco, anche con una semplice escursione che porti fuori dall’ordinarietà. Tesson non è un semplice esploratore ribelle e fuggiasco che sembra aver
istituzionalizzato il disturbo psicologico da evitamento rendendolo produttivo: fugge nel bosco non come il protagonista di Into the Wild ma come un abitante del caos che ha fame di un ordine nuovo: egli è innanzitutto un lettore di Junger, di Eliade e di Drieu La Rochelle – autori che porterà con sé nelle foreste siberiane. Nell’omonimo libro, egli scrive:

« il freddo, il silenzio e la solitudine sono condizioni che un giorno si pagheranno a peso d’oro. Su una Terra sovrappopolata, surriscaldata e rumorosa, una capanna in una foresta è l’eldorado. Millecinquecento chilometri più a sud ribolle la Cina dove un miliardo e mezzo di esseri umani tra non molto resterà senza acqua, senza boschi, senza spazio. Vivere tra alberi d’alto fusto vicino alla più grande riserva di acqua
dolce del mondo è un lusso. Un giorno lo capiranno anche i petrolieri arabi, i nuovi ricchi indiani e gli uomini d’affari russi. La felicità abiterà oltre il sessantesimo parallelo Nord».
Continua diverse pagine dopo: «nella capanna si vive sotto il segno della controrivoluzione. Non bisogna mai
distruggere, dice a se stesso l’eremita, ma conservare e continuare. Qui si persegue la pace e l’unità, si mira a riallacciare i rapporti. Noi crediamo nel ciclo del ritorno».

E’ proprio di Eterno ritorno che noi abbiamo parlato in queste righe. Del resto, le colonne del tempio greco menzionate sopra, non sono forse state costruite nella foresta, ad immagine e somiglianza degli alberi?

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