Editoriali

Dante e Federico II, due miti senza tempo

6 Luglio 2021

Celebrare le ricorrenze ha ancora un senso? Per noi sì, ancor più se la celebrazione avviene in una società spenta e disinteressata al suo passato quanto incurante del suo futuro, che vive un eterno presente, una eterna giovinezza senz’anima. Ricordare abbatte la distanza temporale e ci unisce emozionalmente al nostro comune antenato, ci radica come cittadini e ci riunisce come Italiani, ci inorgoglisce e ci eleva nello sforzo di emulare ciò che sta sopra di noi, scansando le bassezze e con gli occhi rivolti alle vette.

Nel 2019, il 5 giugno c’è stata l’inaugurazione della fondazione dell’Università Federico II di Napoli, che, a differenza di altri illustri atenei, nacque con atto imperiale, volto a formare gruppi dirigenti necessari al governo dello Stato. In questo 2021, invece, ricorre l’anniversario dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri che a Ravenna chiuse per sempre gli occhi colpito da malaria. Due luci del medioevo, un poeta e un imperatore, uniti non solo dalla temperie storica che hanno vissuto; miti senza tempo capaci di manifestare la propria presenza gravida della cultura illuminata che ha unito genti diverse e valori dello spirito contrastanti, fermati nell’azione da forze contrarie e manifestamente poco lungimiranti.

Dante e Federico si sono incontrati nell’atto messianico di un destino che li ha voluti “realizzatori dell’ottima natura dell’uomo e del mondo” intesa proprio da Dio e per atto di mimesi riproposta sulla terra dalla Pax e dalla Iustitia, di cui il primo scrisse e il secondo volle corroborarne l’impero a imitazione del cinquantennio augusteo. Restitutore ispirato da Roma, Federico II sentì imponente il bisogno di rinverdire un impero scisso e indebolito dalla sempre più invasiva presenza della Chiesa. Un impero sacro e romano, ma non per questo sordo alle influenze culturali orientali, un impero legiferato ma non per questo non tollerante e accogliente. Così ha agito in vita secondo quel modello che Dante ha annunciato nei suoi scritti, memore probabilmente di questo “Ultimo imperadore de li romani (Conv. IV, 3,6), controcorrente rispetto a realtà geografiche a lui contemporanee che non vedevano più in Roma il fulcro del proprio modello statale, ma lo trovavano e cercavano in altre culture come quella islamica. Affascinato dall’“aurea fatale dei califfi”, Federico si autoincoronò a Gerusalemme pensando probabilmente – come è stato riportato da talune cronache – che sarebbe stato bello “governare un impero senza papi e senza frati”. Ma questa inclinazione all’islamismo non fu mai niente di più che la curiosità culturale genuina e proficua di chi desidera riunire l’autorità spirituale e il potere temporale. Non diversamente Dante seppe leggere l’Islam nella sua profondità e seppe prenderne quanto serviva alla sua poesia, nella quale c’è Maometto all’inferno e Averroè, c’è Avicenna e il Saladino nel Limbo, c’è la solidarietà di Maometto nei confronti di fra Dolcino, nella quale si può leggere la compassione di Dante nei confronti degli islamici trucidati dai crociati, come anche il bisogno di tolleranza e libertà in un momento in cui non solo era pericolo esserlo ma rovinoso scriverlo.

Dante e Federico erano “italiani”, per nulla nazionalisti eppure fiduciosi di dover dare all’Italia una costruzione statale unitaria che già esisteva storicamente e geograficamente, che predisposero linguisticamente per tramite del lavoro sperimentale svolto nella scuola poetica siciliana e nella perfezione delle terzine dantesche.

Dotati di sensibilità straordinaria non rimasero irretiti né indifferenti all’esoterismo, al linguaggio arcano e ai viaggi iniziatici e se si vocifera una partecipazione federiciana all’associazione ismaelitica degli Assassini – i Guardiani della Terrasanta – sorta in Persia e in Siria o di rapporti con l’Ordine del Tempio si è inoppugnabilmente dimostrato nelle sedi accademiche la partecipazione di Dante ai “Fedeli d’Amore”, corrente che ebbe proprio nella corte siciliana i primi adepti.

E se ancora esiste qualcuno che voglia imprigionare il genio politico e culturale di tali uomini insigni nelle gabbie del condizionamento da uomini e culture, le loro personalità resistono per noi libere, come ebbe a definirle Nietzsche, sincretistiche proprio perché completamente franche nella propria genialità. Non serve difendere Federico perché cristiano, perché amante della cultura islamica, perché devoto alla Vergine, né Dante come guelfo o come ghibellino, come cristiano o come eretico, come fiorentino o nazionalista. Basta leggerne le gesta o le opere per gustarne l’esempio. Morirono a cinquantasei anni, l’età dei grandi uomini secondo Macrobio, un caso, l’ennesimo, che li ha uniti e che noi, con questo numero, sentiamo il dovere di ricordare.

Marina Simeone

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