di Stefano De Rosa
UNA POLITICA SOTTO RICATTO
Il clima che ha incrinato irreversibilmente il rapporto fiduciario tra Magistratura ed opinione pubblica è stato esasperato dalle vicende tratteggiate nel libro; tuttavia l’incontrollabilità del potere giudiziario risale semmai al funesto triennio 1992-94, l’era di “mani pulite”, e al frutto politico più velenoso che quell’epoca lasciò in eredità: la legge costituzionale n. 3/1993 che abrogò l’istituto dell’improcedibilità contro i parlamentari, senza la previa autorizzazione a procedere. La nuova formulazione dell’art. 68 della Costituzione fu l’atto di sottomissione di una politica fragile che in quell’inferno giustizialista non ebbe la forza di opporsi allo strapotere giudiziario e che con quella norma sottoscrisse la sua abdicazione alla piena sovranità. Da allora i rapporti di forza non hanno fatto che sbilanciarsi ulteriormente.
Difficile, quindi, pensare che le storture all’interno della Magistratura e dei suoi organi di vertice possano essere corrette da una autoriforma o da un intervento del Parlamento. Ancor meno ipotizzabile che improbabili risoluzioni di un potere politico impotente (dal 2018, per giunta, in larga parte succube del fascino delle toghe) o di quello giudiziario possano produrre benefici al popolo. Tuttavia la Magistratura vive, come detto, periodi di sbandamento e di crisi di fiducia. Ne costituiscono significativi esempi alcuni recenti echi delle cronache come la recente diffusione dei verbali secretati dell’interrogatorio dell’avvocato Amara sulla presunta loggia “Ungheria”; o il persistente strapotere esercitato dalle correnti nell’Anm.
O, ancora, la clamorosa richiesta di informazioni inoltrata dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo al governo italiano sulle modalità con le quali la Cassazione nel 2013 condannò Berlusconi, sul relativo godimento di un equo processo e sull’imparzialità del giudice che l’ha condannato. Lecito per la CEDU è il sospetto che i giudici non sarebbero stati imparziali, non avrebbero applicato la legge, ma avrebbero espresso il giudizio basandosi sulle loro convinzioni politiche essendo – come sostenuto dallo stesso Palamara – condizionati da certi ambienti della Magistratura associata a fini di favore politico.
L’unica concreta e credibile riforma della giustizia può allora giungere, sebbene circoscritta ad alcuni particolari aspetti ordinamentali, attraverso l’altra modalità legislativa prevista dal Costituente, lo strumento referendario. Proprio in un momento, dunque, nel quale il tessuto delle toghe inizia a palesare qualche scucitura è politicamente propizio ed opportuno sollevare il velo della credibilità e del prestigio di un sistema giudiziario corroso. E farlo tramite una poderosa campagna di informazione su temi specifici e di sensibilizzazione delle coscienze durante i tre mesi estivi – dal 2 luglio al 30 settembre – di raccolta delle firme sui sei quesiti referendari che i rappresentanti di Lega e Partito Radicale hanno meritoriamente depositato in Cassazione. Questi, in sintesi, i relativi contenuti.
I SEI QUESITI
Il primo riguarda le elezioni del Csm e lo strapotere dell’associazionismo. Per tagliare le unghie alle degenerazioni correntizie è necessario modificare i criteri per l’elezione dei magistrati a Palazzo de’ Marescialli. Le regole vigenti prevedono, per chi voglia candidarsi, la raccolta di un numero di firme tra le 25 e le 50; un obiettivo facilmente conseguibile soltanto con l’appoggio determinante di una corrente. Il quesito referendario vuole abrogare il vincolo delle firme e così colpire la patologia correntizia.
Il secondo attiene alla responsabilità diretta dei magistrati. Il successo del quesito permetterebbe al cittadino leso da una sentenza errata di chiamare in giudizio direttamente il magistrato e così, dopo trentacinque anni, riparare alla beffa del cosiddetto “referendum-Tortora” sostenuto e vinto nel novembre 1987 con l’80,21% di Sì (e il 65,11% dei votanti), ma aggirato da una successiva legge (la n. 117/1988, o legge Vassalli) la quale sotto forti pressioni della Magistratura al Parlamento delegittimò il voto popolare prevedendo la responsabilità diretta dello Stato e solo quella indiretta del magistrato.
Il terzo si occupa della equa valutazione dei magistrati. Nel Consiglio direttivo della Cassazione e nei Consigli giudiziari (i piccoli Csm nei distretti), dove si valuta la professionalità delle toghe, oggi non possono prendere parte avvocati e professori universitari; l’intento del referendum è quello di prevederne invece la partecipazione. Una riforma che consentirebbe di esprimere una valutazione di professionalità e qualità anche in relazione all’esito e alla tenuta dei processi nei gradi successivi. Il numero esorbitante di innocenti in galera, il numero di procedimenti che si chiude perché “il fatto non sussiste” e la contestuale percentuale, pari a circa il 99%, di valutazioni positive conferite alle toghe dimostrano che la matematica mal si coniuga alla meritocrazia e alla trasparenza, ma spesso all’appartenenza alla lobby correntizia più attrezzata.
Il quarto, cruciale, riguarda la separazione delle carriere tra giudici e pm e l’instaurazione di due distinti Csm, uno per la funzione giudicante, l’altro per quella requirente. Qui ad entrare in gioco è addirittura la terzietà del giudice, così come sancita dal principio costituzionale dell’equo processo (art. 111). Intercettazioni, sequestri, misure cautelari, rinvii a giudizio sono provvedimenti disposti dai pm, ma chi li convalida è un giudice. Il libro-confessione di Palamara ha chiarito che le Procure hanno acquisito una connotazione politica e rispondono ad interessi extra-istituzionali. Gli inquirenti ormai scelgono le indagini da fare e quelle da insabbiare. Il rapporto tra richieste dei pm e relativi accoglimenti da parte di gip o gup dimostra che la loro funzione di controllo giurisdizionale delle indagini semplicemente non esiste, con percentuali che sfiorano il 100%.
La spiegazione potrebbe, forse, risiedere nel fatto che le sedi nelle quali si esprime l’indirizzo politico del potere giudiziario (Csm, Consigli giudiziari, Anm) ed in cui, molto prosaicamente, interessi, trasferimenti e promozioni dei togati trovano le loro stanze di compensazione, risultano egemonizzate numericamente dal partito dei pm. Non a caso negli ultimi trent’anni l’Anm è stata pressoché sempre presieduta da un pubblico ministero. Quindi è proprio la mancanza di autonomia (e di terzietà) del giudice a pregiudicare l’attendibilità delle sentenze e a costituire un pericoloso vulnus di equilibrio democratico dei poteri e di garanzia dei cittadini al quale il quesito referendario intende porre rimedio.
Il quinto intende limitare gli abusi della custodia cautelare, per evitare che il carcere preventivo si trasformi in un ingiusto anticipo della pena; una prassi che viola il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Occorre, cioè, superare il giustizialismo manettaro di Travaglio & Davigo, per il quale gli innocenti sono colpevoli non ancora scoperti.
Il sesto quesito auspica l’abolizione parziale del decreto Severino, norma che, in caso di condanna per determinati reati, prevede la sanzione accessoria della incandidabilità a parlamentare, consigliere o presidente regionale, sindaco o amministratore locale; se abrogata, cesserebbe l’automatismo della pena (filiazione differita, ma sempre in linea diretta della stagione giacobina intrapresa trent’anni fa), che invece sarebbe affidata alla decisione, caso per caso, del giudice.
continua
Fonte: Italicum