L’editoriale del numero 362 di Diorama Letterario diretto da Marco Tarchi con lucidità e puntualità, ma anche eloquenza fuori dal comune ritrae esaustivamente il momento di sottomissione culturale che stiamo vivendo. Lo fa senza piagnistei o apocalittiche rassegnazioni, perché da politologo Marco Tarchi ha sempre valutato la politica con il realismo scevro da moralismo e semplificazioni ideologiche. “Sottomissione” ci spiega come è infido e potente il meccanismo di proscinesi ad un pensiero dominante, che non accetta dialettica tanto più democratica; ci invita a leggere le notizie con la critica illuminata del libero pensatore, del filosofo che esce dalla caverna e scopre i nomi e i concetti di ciò che pensava essere pauroso e deforme. Mette alla porta le demonizzazioni etichettandole come manipolatrici, tentativi pensati di un meccanismo di comunicazione internazionale capace di legittimare un unico pensiero e di condannarne un altro, assumendo su di sé l’auctoritas contro cui è eretico o diabolico persino dibattere. Il caso Barilla e non solo, citati nell’editoriale, spiegano il funzionamento di questo sistema.
Di seguito pubblichiamo l’editoriale integrale che potrete trovare come tutti gli altri sul sito www.diorama.it.
L’idea è nata, come ormai da tempo accade per tutte le iniziative targate politically correct, negli Stati Uniti d’America, dove ha fatto la sua comparsa nel novembre 2016, subito dopo la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump, ma si è poi estesa fino a toccare Australia, Belgio, Brasile, Canada, Finlandia, Francia, Germany, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna e Italia[i]. Il suo veicolo privilegiato, ma non unico, è Twitter. La sua arma, la delazione e il ricatto. Il suo obiettivo, la censura delle voci sgradite. Il prerequisito delle sue azioni, l’anonimato di chi le mette in atto. Il nome scelto, Sleeping Giants. Un’etichetta che vorrebbe richiamare il mondo roseo delle favole – dove il Bene vince sempre il Male – e di fatto copre una delle più insidiose minacce alla libertà di opinione che il mondo attuale, pur già tanto travagliato dalla repressione delle forme di pensiero che disturbano lo “spirito del tempo”, abbia conosciuto.
Di questi “giganti dormienti”, attivisti dell’oltranzismo progressista, in Italia si parla ancora poco. Troppo poco, in relazione alla loro pericolosità e all’elevata probabilità di vederli presto entrare in campo in misura molto più incisiva, con il loro gioco a gamba tesa, per intensificare la già cospicua demonizzazione degli avversari, prendendo il posto di chi – come il boccheggiante movimento delle “sardine” – non ha saputo svolgere il compito con l’efficacia preventivata. È bene quindi prenderne sin d’ora le misure e identificarne i metodi, per abbozzare le auspicabili contromisure, da estendere a tutti i soggetti che si prefiggono analoghi intenti. A tale scopo, occorre partire da qualche cenno storico.
La prima delle campagne censorie degli Sleeping Giants ha avuto come bersaglio Breibart News, il sito web dell’Alt-Right spesso associato al nome di Steve Bannon. Obiettivo: denunciare a suon di tweets e retweets la “complicità” con l’ultradestra delle imprese che investivano in pubblicità sul sito e indurle a cessare immediatamente ogni apporto finanziario ad un canale di comunicazione accusato di divulgare fake news e – ecco la formuletta magica – praticare hate speech, fomentando discriminazione, razzismo, ostilità verso i “diversi”. Scopo raggiunto, se si crede alle cifre fornite dai diretti interessati, che parlano di 820 disdette pubblicitarie nei primi sei mesi di campagna, cresciute in seguito fino a “migliaia”. Così come il successo è arriso alle pressioni sulla rete televisiva Fox News affinché chiudesse un talk show di impostazione conservatrice il cui conduttore era accusato di molestie sessuali. Successive azioni hanno condotto in Canada all’intimidazione degli inserzionisti del sito The Rebel Media e in Brasile a spingere PayPal ad escludere dai suoi servizi bancari le attività del polemista di destra Olavo de Carvalho. Ma è sulla Francia che i suoi militanti hanno da qualche tempo spostato la loro attenzione.
Nel paese transalpino, affezionato non da oggi alle maniere forti contro chi si mette di traverso ai poteri che contano – non c’è bisogno di risalire ai tempi della ghigliottina; basta pensare alla sorte che hanno subìto i “revisionisti” alla Faurisson o, più di recente, il comico Dieudonné e il discusso pensatore-attivista Alain Soral, messi al bando sine die da YouTube (dove avevano milioni di visualizzazioni) dopo che già da anni al primo veniva negato, anche con attentati intimidatori, l’uso dei teatri e di altri locali pubblici per i suoi spettacoli –, gli anonimi “giganti” hanno scatenato un’offensiva contro la libertà di pensiero di grandi proporzioni. Come ha documentato nel dettaglio l’eccellente Observatoire du journalisme[ii], il gruppo ha preso di mira successivamente tre canali d’informazione sgraditi – il sito Boulevard Voltaire, il settimanale Valeurs actuelles e la rete televisiva CNews – con il pretesto di combattere idee «razziste, sessiste, xenofobe, omofobe e antisemite», puntando ad asfissiare economicamente i luoghi di espressione di qualunque pensiero non allineato alle sue convinzioni.
Ad onta delle loro ipocrite asserzioni – «informare» le aziende delle caratteristiche «indiscutibili» (a loro esclusivo giudizio) delle testa prese di mira, per «convincerle» a recedere dai loro contratti pubblicitari –, i “giganti” agiscono al di fuori di ogni contesto democratico e delle norme di ogni Stato di diritto. Le loro petizioni di principio, e le affermazioni diffamatorie che ne conseguono, si sostituiscono alle sentenze dei tribunali, e spesso le smentiscono. Con il sostegno di molti media ufficiali, disposti a farli passare per «collettivi di cittadini» e non per quello che sono – un braccio armato dell’estrema sinistra – si prefiggono il controllo del diritto di parola, della verità e di ciò che può e deve essere pensato. Come nelle anticipazioni di Orwell, si prefiggono di difendere la libertà sopprimendola per chi difenda concezioni diverse della società da quella da loro coltivata.
Giudicando non sufficienti i social media per condurre le loro operazioni, questi avanguardisti della delazione hanno chiesto e ottenuto l’agibilità dei canali radiofonici, che consentono loro di mantenere l’anonimato e quindi di non essere individualmente perseguiti in giustizia. Come è ancora l’Ojim a documentare, la loro portavoce (di questi tempi è sempre meglio avere un soggetto femminile da mettere in vista – è un segno ulteriore di stare “dalla parte giusta”) «detta i codici di condotta, i modi di comportarsi sulle reti sociali, decide quale mezzo d’informazione ha il diritto o no di esprimersi, bracca, denuncia, minaccia e sanziona. […] Metodi degni delle peggiori epoche della nostra storia ma efficaci»[iii]. Temendo di perdere clienti o anche solo di passare per retrograde e offrire alle redazioni giornalistiche progressiste il pretesto per imbastire velenose polemiche, le aziende, una volta ricevuti i messaggi dei militanti («Buongiorno. La vostra pubblicità è in mostra sul detestabile [qui il nome della testata presa di mira] e lo finanzia a vostra insaputa. Bloccatela, per favore», si affrettano ad eseguire. E il danno può essere anche maggiore: Valeurs actuelles si è vista addirittura stracciare il contratto dall’agenzia che gestiva il suo intero bilancio pubblicitario (la causa fra le parti è in corso, al terzo grado di giudizio).
Minacciati nella loro stessa esistenza, i media sotto attacco hanno finalmente reagito, concordando un’azione legale. Ma c’è da scommettere che l’apparato informativo ufficiale ribalterà i ruoli nella vicenda e farà passare gli aggrediti per aggressori e questi ultimi per coraggiosi martiri della lotta per la tutela dei diritti dell’uomo.
Il metodo è d’altronde ben noto anche in Italia. A chi ne avesse dimenticata una delle più celebri occasioni di applicazione, può bastare a rinfrescarne la memoria qualche passaggio di uno dei tanti articoli pubblicati in merito da testate progressiste: «Non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca». Era il 25 settembre del 2013 e Guido Barilla rispondeva così, ai microfoni di Radio24, ad una domanda sul perché l’azienda non avesse ancora dato spazio agli omosessuali nei propri spot. L’intervista causò una pioggia di polemiche, da parte delle associazioni gay friendly e di esponenti del mondo politico e dello spettacolo. Mentre i clienti più affezionati (sic: ma davvero?, ndr) minacciavano di non comprare più la pasta, Barilla iniziava il suo percorso di “redenzione”. Un viaggio che l’avrebbe portata, in poco tempo, ad ottenere un punteggio perfetto dalla Human Right Campaign, un’importante associazione per i diritti degli omosessuali che stila ogni anno il Corporate equality index, una graduatoria basata sulle politiche interne ed esterne aziendali in questo campo»[iv]. Anche in quel caso la sequenza fu identica: scandalo mediatico, lancio di una campagna di boicottaggio, pressioni concentriche, cedimento, pubblico pentimento e marcia indietro.
Chissà se finirà allo stesso modo l’avventura di GBNews, la nuova rete all news creata oltre Manica da una rodata équipe di giornalisti conservatori per fornire al pubblico una voce diversa da quelle del coro politically correct del panorama massmediale britannico. Lanciata lo scorso 13 giugno da Andrew Neil, un ex reporter della Bbc, che ha deciso di abbandonare non sopportandone più l’allineamento ai canoni della cultura woke anti-bianca, la rete ha toccato i 262.000 spettatori nella serata d’avvio: un successo che ha scosso concorrenti e critici e ha immediatamente dato l’avvio ad un tentativo di boicottaggio. I propositi dei suoi animatori – già brexiters – di «modificare il volto dell’informazione», presentandosi come «vicina ai britannici» e «opposta a tutte le censure» hanno punto sul vivo il gruppo Stop Funding Hate – si noti il costante uso dello stereotipo dell’odio, che questi odiatori di chi non professa le loro convinzioni applicano ad ogni avversario –, pronto a gettarsi nella mischia contro un mezzo d’informazione che, ancor prima che iniziasse le trasmissioni, hanno definito veicolo di «discriminazione e demonizzazione»[v]. Le cose però, per adesso, in questo caso non hanno preso la piega auspicata. In un primo momento alcune aziende, come Ikea e Octopus Energy, hanno obbedito ai ricattatori, ma di fronte alla difesa del quotidiano conservatore «The Telegraph», del ministro della cultura Olivier Dowden e di altri esponenti del partito di governo[vi], sono tornate sui loro passi.
Per una buona notizia, sul fronte della criminalizzazione delle idee non allineate all’ideologia dominante, vanno accumulandosene però molte altre negative. Per farne l’inventario, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Si può partire, ad esempio, dalla questione del razzismo. Sono nella memoria recente di tutti le immagini dei giocatori inginocchiati sul campo prima delle partite ai campionati europei di calcio, e risuonano nelle orecchie i commenti indignati di politici e opinionisti “benpensanti” nei confronti di chi si è sottratto al rito. Che gli interpreti della rappresentazione ne siano consapevoli o meno, quel gesto di sottomissione, lungi dal costituire una semplice testimonianza di solidarietà con chi è colpito da discriminazioni razziali, è un omaggio imitativo ad un movimento, Black Lives Matter, che rivendica un “orgoglio di razza” e fomenta, suscitando o giustificando rivolte e violenze contro persone e cose, ulteriori lacerazioni nel tessuto delle società multietniche e multiculturali – che purtroppo (non ci scusiamo affatto dell’uso di questo avverbio, né lo faremo in futuro) si stanno moltiplicando in tutto il pianeta, e soprattutto in Europa – e incrementa una pericolosa tendenza al conflitto interetnico. Chi, cosciente di questi dati di fatto, rifiuta di inginocchiarsi viene ipso facto additato come un razzista perlomeno potenziale, preso di mira, discriminato. Il che spiega più e meglio di ogni altro motivo perché artisti, sportivi, dirigenti di imprese commerciali, insegnanti e altre personalità pubbliche si affrettino a sostenere la moda e a piegare, oltre al ginocchio, il capo e la schiena. Il tutto mentre la colpevolizzazione dei “visi pallidi” trova i modi più disparati e assurdi per dilagare, non risparmiando nemmeno… la gastronomia, la cui “bianchità”, ha assicurato in una lezione via video per la (un tempo) prestigiosa Sciences Po parigina Mathilde Cohen, docente all’università del Connecticut, contribuisce a «mantenere il dominio» della parte di popolazione insufficientemente pigmentata sugli abitanti «etnicamente sottorappresentati e/o formati in un ambiente non occidentale»[vii]…
L’offensiva per imporre definitivamente il nuovo ordine omologante e livellatore non si limita però a questo versante, ma cerca di cogliere l’obiettivo colpendo contemporaneamente in più punti. E un secondo ambito di applicazione della sua ricetta ricattatorio-intimidatorio-punitiva è quello della promozione della teoria del genere, camuffata da mera affermazione dei diritti della “comunità” Lgbt e affiliati/e. Anche qui, gli esempi di attualità traboccano. Se in Italia si concentrano sulla lotta per l’approvazione di un disegno di legge che esordisce affermando che «per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso» e che «per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso», per poi prevedere la punizione di chi esprima idee in contrasto con il riconoscimento del «genere» sopra delineato, se giudicate (da chi?) «idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti» ed infine non solo istituire una «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia» da celebrare obbligatoriamente in ogni istituzione scolastica, ma addirittura anche «una rilevazione statistica con cadenza almeno triennale [che] deve misurare anche le opinioni [sottolineatura nostra], le discriminazioni e la violenza subite e le caratteristiche dei soggetti più esposti al rischio», altrove ne troviamo altre non meno insidiose forme. Come il battage scatenato contro la legge votata dal parlamento ungherese che vieta la propaganda e la promozione dell’omosessualità negli ambienti scolastici, con tanto di proposta di un’illuminazione arcobaleno dello stadio di Monaco di Baviera, documento di condanna di 17 paesi dell’Unione europea (prontamente firmato da Draghi, con buona pace del suo sostenitore Salvini) e minaccia di espulsione dall’Unione del paese magiaro. O la torrenziale pioggia di dichiarazioni “includenti” e/o omofile di cantanti, attori, registi, politici di sinistra e di centrodestra[viii], intellettuali di ogni genere (appunto), specie e rango.
Se tutto questo non bastasse ad illustrare la situazione – in cui svolgono una funzione d’appoggio molto significativa le produzioni televisive, radiofoniche e cinematografiche, ormai nella grande maggioranza tese a produrre nell’immaginario collettivo eroi (migranti, omosessuali, trasgressori delle norme ordinarie della vita sociale) e antieroi (i “normali”, ipocriti, egoisti, intolleranti, razzisti e insensibili ad ogni nobile causa) – si potrebbe aprire il rigoglioso capitolo della compassione e commozione a senso unico, da applicare solo ai fuggitivi dall’ex-Terzo mondo; ma di questo ci siamo già più volte occupati (e, temiamo, dovremo più volte occuparci di nuovo). Più importante ci sembra tirare le somme di quanto abbiamo sin qui illustrato.
Sono conclusioni che si possono riassumere in pochi punti. Primo: l’efficacia del rullo compressore dell’omologazione al pensiero globalista oggi dominante si fonda innanzitutto sul ricatto, materiale o psicologico che sia (o di entrambi i tipi: si pensi al ministro francese che ha dichiarato via radio che, in caso di conquista della presidenza della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra da parte del Rassemblement national, gli investitori stranieri sarebbero indotti a ritirare i loro capitali da ogni progetto locale[ix]). Secondo: questi ricatti – la patente di razzista o di omofobo assegnata a chi non si piega al coro “inclusivista” – puntano a creare un complesso di inferiorità nei dissidenti e ad indurli a tenere le loro ragioni ed obiezioni ben chiuse nella sola cerchia delle frequentazioni più intime, se non addirittura soltanto in interiore homine (dove, non a caso, habitat veritas). Terzo: l’obiettivo finale del processo è la cancellazione dell’identità nelle coscienze individuali e in quella collettiva. È questo l’estremo baluardo a difesa della specificità dei popoli, delle culture – e persino dei sessi – su cui per millenni si è formata la bellezza del mondo, la sua vitalità, la sua creatività, nelle più svariate forme a cui ogni aggregato umano ha saputo dare espressione.
È dunque questa la barriera su cui tutti coloro che condividono il disagio della situazione che abbiamo descritto devono oggi attestarsi, per renderla invalicabile. Con orgoglio e con intelligenza, evitando atteggiamenti infantili, rancori, aggressività, che fanno solo il gioco degli avversari. Capirlo è urgente e indispensabile. Altri mali affliggono la nostra epoca, è vero, ed occorre tenerne conto. Ma il nemico principale, in questa fase storica, è questo: il progetto dell’individualismo cosmopolita. Che non renda definitiva la sua vittoria, che non riesca a sottometterci, dipende da ciascuno di noi, dalle sue scelte quotidiane, dalla volontà e capacità di farsi veicolo di idee realmente alternative allo spirito del tempo attuale.
Marco Tarchi
NOTE
[i] Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Sleeping_Giants
[ii] Cfr. https://www.ojim.fr/sleeping-giants-ou-le-totalitarisme-soft-qui-veut-tuer/ dove figura anche un video esplicativo dell’animatore dell’Osservatorio, Claude Chollet.
[iii] https://www.bvoltaire.fr/les-sleeping-giants-attaques-en-justice-par-bv-cnews-et-valeurs-actuelles/?mc_cid=beb5087710&mc_eid=6dce442501
[iv] Ilaria Betti, Barilla, dallo scandalo a brand gay friendly.10 modi in cui l’azienda ha rimediato alla gaffe sull’omofobia, in «Huffington Post», 17.3.2015.
[v] Cfr. GB News, Fox News à l’anglaise ou CNews à la française?, https://www.ojim.fr/gb-news-fox-news-a-langlaise-ou-cnews-a-la-francaise/.
[vi] «Questo è il peggior tipo di cancel culture (cultura della cancellazione) — ha reagito il presidente conservatore della Commissione Media e Cultura del Parlamento, Julian Knight —. GB News sta portando una prospettiva di cui c’è molto bisogno nel nostro panorama dei media. I marchi che stanno ritirando la pubblicità sono francamente codardi e devono capire che la Gran Bretagna è un Paese conservatore e rimarrà così per il prevedibile futuro». Cfr. Luigi Ippolito, GB News, la tv di destra che ha battuto Bbc News (ed è stata abbandonata dagli sponsor), in «Corriere della sera», 17.6.2021.
[vii] Cfr. https://www.bvoltaire.fr/gastronomie-francaise-trop-blanche-sciences-po-se-lance-dans-lantiracisme-comique/?mc_cid=c8ec92a368&mc_eid=6dce442501
[viii] Osservazioni critiche non scontate sono venute da non allineati di sinistra. Cfr. Marina Terragni, Sì alla legge Zan ma senza identità di genere, in «La Stampa», 22.4.2021; o l’intervista a Francesca Izzo, http://www.unacitta.it/it/intervista/2792-self-id;
[ix] Cfr. https://www.lefigaro.fr/conjoncture/pour-franck-riester-le-rn-est-un-grand-danger-pour-la-competitivite-des-regions-20210624.