di Giorgia Durigon
Fresca tra le notizie del Telegraph britannico, ci fa riflettere la recente politica attuata dall’università di Cambridge, notoriamente tra le università più prestigiose d’Europa. Il noto ateneo dall’anno scorso ha avviato un progetto, compreso, insieme ad altri undici, tra i progetti definiti sotto il macrotema “uguglianza, diversità e inclusione” finanziati dal governo inglese per 5,5 milioni di sterline. Per raggiungere tale scopo, secondo i termini del suddetto progetto sono state inserite tra lo staff delle nuove figure, i “reverse mentors”, o mentori al contrario, parte integrante del contenitore denominato BAME- black, Asian and minority ethinic, cioè dei “professori di etica” che dovrebbero insegnare ai loro superiori bianchi come comportarsi nei confronti della sensibilità delle cosiddette minoranze. L’origine della polemica proviene da una dottoranda, Indiana Seresin, che dicendosi indignata per quelli che lei definisce consueti episodi di “structural racism”- razzismo strutturale – ha abbandonato scenicamente il suo lavoro e la borsa di dottorato presso l’ateneo. Le ragioni etiche della rinuncia vengono così rese pubbliche: “come studentessa bianca, ho beneficiato del razzismo strutturale dell’università”, lusso che, come ricercatrice sul campo dei “black studies”, non può concedersi. Si tratta anche di una questione legata alla qualità dell’insegnamento “l’università e la facoltà di Inglese sono intellettualmente impoverite dall’esagerata maggioranza tra suoi componenti di bianchi di classe medio-alta”, prosegue “la sistematica esclusione sia di accademici neri che del pensiero nero, è un atteggiamento intellettualmente autolesionista, che giustamente rende un’istituzione sia illegittima che irrilevante”.
Questa notizia rende evidente una marcata confusione di elementi. Che cosa significa il termine uguaglianza affiancato a inclusione? Uguaglianza di diritti o uguaglianza nella rappresentazione numerica delle minoranze all’interno del corpo docenti contro il loro contrario bianco? Soprattutto, cosa significa inclusione all’interno di un’istituzione che dovrebbe funzionare per merito accademico?
Questo progetto, presentandosi con buoni propositi, di fatto altro non è che una sistematizzazione di un pensiero: del razzismo stesso. Seresin si scaglia contro un razzismo che definisce strutturale, l’istituzione risponde con una “diversità strutturalizzata”, non più naturale. Controllo coercitivo in nome dell’affermazione dell’uguaglianza di diritti e della promozione della diversità, che invece sottende un progetto uniformante per il quale la diversità di identità non ha più alcun valore, anzi rappresenta un pericolo che va smussato. Lotta a un razzismo negativo per un razzismo positivo in apparenza, in realtà vuole cancellarlo del tutto.
Azione di controllo dall’alto sul pensiero individuale dei docenti e ricercatori quella rappresentata dai reverse mentors, veri e propri controllori e obliteratori (non a caso “reverse” vuol dire contrario, ma indica anche l’azione di cancellare). Dotati della legittimità di potere, cosa vogliono obliterare? La libertà di pensiero. Qui non si tratta di razzismo, si tratta di instaurare un sistema unico di pensiero, globalizzante e livellatore, a qualsiasi costo e utilizzando anche la forza. Un vero e proprio regime del terrore, nel quale si dà il bastone in mano alle “minoranze”, riducendo le maggioranze alla paura di interloquire con le prime. Le minoranze crederanno di essersi rese libere, le maggioranze nel frattempo saranno frustrate.
Seresin non si sbaglia dicendo che la diversità arricchisce, soprattutto quando si tratta di un’istituzione volta alla creazione e diffusione di sapere e pensiero. Il problema si pone però quando questa diversità di fatto non esiste più, quando le diverse identità vengono obliterate per l’affermazione di una a senso unico e quando l’affermazione dell’identità viene dichiarata illegittima e irrilevante. Si tratta di violenza, forzatura di una porta che, quando è sicura del proprio essere, naturalmente sarebbe aperta all’altro e all’apprendimento da esso. L’irruzione violenta provoca reazione violenta, il razzismo negativo.
Totalitarismo che semplicemente ha cambiato forma e che utilizza il soft power per infiltrarsi nel pensiero degli individui che formano l’opinione pubblica, concetto di invenzione anglosassone. Frutto di un potere che si dichiara essere non coercitivo e non limitante nelle libertà, in particolare di pensiero.
Che oggi le università, ancor più di ieri, non permettano lo sviluppo di pensieri veramente rivoluzionari o comunque diversificati, con la conseguente perdita di centralità nel dibattito intellettuale odierno, è risaputo. Lo studente medio, soprattutto in ambito umanistico, non sente che il proprio lavoro possa avere un’effettiva utilità comunitaria. Le dissertazioni per la maggior parte dei casi si limitano a sterili discorsi autoreferenziali.
Quando a questo si somma l’uniformità data alla linea di pensiero, allora il dibattito si spegne e si spegne la crescita intellettuale. Conoscere e riconoscere la diversità è un fattore importante di crescita che necessita come base la conoscenza della propria particolarità. Proprio perché diversità non significa cumulo informe di oggetti culturali, perché uguaglianza non significa livellamento a priori della suddetta diversità e inclusione non significa somma di elementi, allora è importante fare ordine. Come diceva Rabindranath Tagore, la diversità tra popoli esiste, secondo noi va incentivata la sua conoscenza, perché la conoscenza evita lo scontro e l’annullamento; l’uguaglianza di diritti va perseguita, nei limiti del rispetto delle identità e culture locali; l’inclusione, una volta riordinati i primi due termini, non sussiste più come problema.
Sta di fatto che le università dovrebbero promuovere la conoscenza, sulla base del merito intellettuale dei suoi componenti, e non sopperire alle sue mancanze introducendo delle figure nel corpo docenti cui merito principalmente messo in luce è l’essere appartenenti a un conglomerato di minoranze (BAME), facendo passare in secondo piano un loro eventuale merito accademico e quello di chiunque altro, sulla scia di un dittatoriale politically correct.