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Figli di nessuno.

10 Aprile 2020

di Adolfo Durazzini

Dopo ogni guerra, dopo ogni crisi, i sopravvissuti sono sempre stati i testimoni o nel miglior dei casi gli artefici della ricostruzione e della decostruzione. Quest’ultima fosse stata interiore, con relativo cambiamento di rotta a più livelli, dal modo di pensare al modo di fare, o esteriore, vale a dire nella rivalutazione spaziale, nella ricostruzione o nella decostruzione immobiliare ed economica. La guerra, lo sappiamo, è stata dunque foriera di evoluzioni che tuttavia non sempre andavano nel verso più saggio possibile. Thoreau diceva che “Il miglior governo è quello che non governa”, confermando il pensiero di Ralph Waldo Emerson e inserendosi sulla scia dei pensatori confuciani e taoisti, quanto alcuni musulmani. La massima ripete uno schema della mente da non sottovalutare, quando si parla per l’appunto di essere “nocchieri”. Cosicché in tutte le religioni e in tutte le politiche ideali del tempo passato abbiamo visto misteriosi consiglieri, al quanto pare molto saggi, stare vicino al governante. Tra il consigliere e il Principe, chiamiamolo così, non si è mai saputo chi dei due fosse timone o chi dei due fosse vela. Se il timone traccia una rotta e guida muovendosi solo attorno ad un asse, ad un centro, la vela invece è alla mercé dei capricci del vento, il quale può decidere come il popolo di non soffiare più e quindi di non fare andare avanti la nave, il paese, la comunità. Il perno, la vera guida, il vero Imam nascosto o ancora il Cakravartin, in tal caso non potrà essere di grande utilità, potrà sempre muovere tra la destra o la sinistra, ma in nessun modo traccerà la rotta interrotta dai venti capricciosi. La verità vuole sempre il suo compenso, infatti non si potrà affermare che un leader, un capogruppo, siano essenziali senza un vero consenso, privati dunque dal potere che il vento conferisce loro.

Ci possiamo domandare allora: si è leader per elezione di nascita o per elezione popolare? Nella sua maledizione, il leader, il capo, è da esser considerato più simile a uno sciamano, in quanto non ha scelto ma è stato scelto, non dagli uomini, non da presunte divinità, quanto da segni che per l’appunto hanno segnato la sua nascita; questi sono un puro tormento ed egli non può avanzare senza l’ausilio di una guida, di un timone. Pensiamo infatti alle vicende della Bhagavadgītā, in cui Arjuna, il principe, è letteralmente guidato da un auriga, niente di meno che Krishna, la guida. Quindi per conoscere l’indole di un principe, occorre conoscere anche la natura della sua guida, chi lo muove, da cosa è mosso. Per conoscere l’efficacia di una guida, occorre conoscere il suo trascorso e i segni che lo hanno marcato, insomma i suoi attributi. Allora, possiamo capire se la sua natura è guidata da intenzioni e fini nobili, alti, insomma se come il Mahdi, è un “ben guidato”. Inoltre, sempre prendendo Thoreau in causa, una citazione tratta da Disobbedienza civile, non manca di suscitare in noi un paragone con le opere sulle virtù in Macchiavelli e in al-Kindī: “Per un solo uomo virtuoso ci sono novecentonovantanove patroni della virtù. Ma è più facile trattare con chi possiede davvero qualcosa, piuttosto che con il suo custode temporaneo.”.  Lo stesso accento sulle virtù stava alla base della filosofia confuciana e dell’etica buddista. Proseguendo nel paragone e capovolgendo gli insegnamenti etici di Julius Evola, ci possiamo domandare quanto nel capo ci sia dell’altro, o meglio, quanto il capo, ovvero il perno centrale della ruota, possieda in sé tutti i raggi che da lui sono emanati, quelle virtù da vir, ovvero uomo completo, che come dicevamo, al-Kindī proclamava prima di Macchiavelli, come naturali in ognuno di noi e profetici nel principe.

Cercando qua e là delle sintesi, delle risposte, che in passato si sono manifestate in scuole filosofiche, in ideali politici, non possiamo che essere delusi. È pur sempre vero che chi si accontenta gode, tuttavia noi non ci accontentiamo e non abbiamo mai trovato nessuno che sappia “dominarci” con quella non fatica già cara ad Alceste De Ambris e alle ispirazioni spirituali di provenienza taoista, vedasi il concetto di wu-wei-wu equivalente al “fatica senza fatica”. Possiamo aver riconosciuto in capi del passato degli esempi di rettitudine, di virtù che li hanno resi nobili in tutti i sensi, sia come ricettacoli di paradigmi migliori e sistemici, sia nel loro essere “nuovo” concettualmente, pur facendo del nuovo con del vecchio. Rimandiamo il lettore agli svariati fenomeni di giovani o anziani, che dileguarono la società, le comunità di provenienza, perché stanchi o meglio disincantati rispetto a politiche, credo e scarsità di rappresentanza, nella fattispecie di un capo messianico o provvidenziale. Costoro presero la via del bosco, costoro fuggirono, o corsero come i beguny e stranniki russi o i dervisci islamici, o ancora come il Principe Siddhārtha Gautama. Oppure i wandervögel, sbrigliati da ogni orpello borghese, o da attaccamenti a vite ormai superate, riconoscendo un capo del momento, nel loro camerata più eccelso di turno. In effetti, questa naturalezza, questa foga giovanile che si era data alla macchia, infine non trovò mai un vero leader, persino lo Jünger, inizialmente incantato dalla figura di Hitler, dovette ricredersi e dare tempo al tempo, magari aspettando l’ipostasi divina di un Mahdi venturo…

Così ai giorni nostri la problematica non si è evoluta di uno iota, anzi direi che è aumentata la frammentazione ideale nelle genti e facendo ciò abbiamo perso ancor di più la capacità di poter fare squadra, di poter essere uniti all’insegna di un’etica comune e guidati bene da un capo che meritatamente è capo e non tiranno, non simulacro di una qualche profezia. È invece nelle zone più aride, nei deserti veri, nelle terre in guerra, nei centri extraurbani desolati, nelle case famiglia, è lì che, se ancora sopravvive qualcosa di puro, risiede forse ancora uno spettro venturo di santità. Nella povertà materiale, nel rifiuto di ogni sistema e di qualsiasi forma di compromesso con esso troveremo la vera via alla rivalsa ontologica futura. Chi ha sofferto, chi ha fame, chi ha pianto tanto da non poter avere ancora una lacrima così da trasformare la tristezza in rabbia e la rabbia in sorriso, forse saranno questi a formare le schiere che agli angeli daranno la mano decisiva contro ogni forma di oppressione e di ingiustizia. Il percorso che stanno svolgendo questi ragazzi è pura religione, non ancora toccata dalla depravazione del sistema mondo. Da figli di nessuno, non possiamo che affermare due fondamenti, il primo è che riconosciamo nel ver sacrum quel timone di salvezza che, senza andar contro il concetto di famiglia, fa fuoriuscire dalla sorte di quest’ultima, sia essa politica o religiosa, portandoci là dove certi errori saranno evitati e una genìa nuovissima sarà creata. In questo senso ci si prefigura come figli di nessuno, si sceglie di non essere figli del tempo, ma figli dell’esistenza. Il secondo è che non dobbiamo mancare di ricordarci che Nessuno era proprio il nome con il quale Odisseo si era presentato a chi sapeva vedere solo con un occhio, Polifemo. Da un lato abbiamo quindi il rifiuto categorico di essere immischiati con il passato prossimo, ma solo con quel passato arcaico di cui abbiamo in effetti bisogno, e dall’altro lato prendiamo la tattica di Odisseo come valida, là dove il rifiuto di darsi un nome rimane categorico, scegliendo in tal senso l’apofasia come fase necessaria per la rivalsa finale, per accogliere l’Urano trionfante. Questi figli di nessuno sono nel percorso più arduo ma più nobile, quello che porterà alla rivelazione del re apofatico, del vero leader, ma fino a quando questi uomini e queste donne non avranno un capo che sappia dominare la loro rabbia esistenziale, questi saranno solo figli di nessuno, tra i prati di Scampia e i grattacieli di Tor Bella Monaca.

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