Argonauti Italia

Viaggiar e andar… in brodo di giuggiole.

26 Settembre 2020

Una passeggiata per Arquà Petrarca.

di Giorgia Durigon

Una giornata di settembre, quella tipica atmosfera che per chi riesce a toccare il mondo con il cuore subito richiama una lieve nota di nostalgia. Non più estate non ancora autunno. Il sole si leva ancora alto nel cielo ma i suoi raggi assumono dei toni sempre più freddi e riflettono sulla natura come se questa fosse ricoperta da un sottile specchio invisibile all’occhio annebbiato dell’uomo.

È in una giornata così che, preso zainetto e pargoletta, ci inoltriamo al di fuori dei confini della Padova cittadina. Ad accoglierci è questo paesaggio curioso, che se uno si soffermasse a pensarci razionalmente non riuscirebbe mai a raggiungerne il significato più profondo: la testimonianza del tempo ciclico della nostra Terra e di un tempo che ci mostra che tutto ciò che oggi crediamo del tutto vero e immutabile in verità porta in sé una lenta e continua trasformazione.

Sono i Colli Euganei, là dove in quel tempo impensabile regnavano gli abissi marini oggi sorgono questi monti conici dalle rocce bianche, rosse e verdastre di argilla, regnano sulla pianura come fossero ognuno un imponente castello a sfida degli altri, dei monti isolati, anzi isole emerse, che sembrano essere state posizionate lì dall’alto, quasi per fare uno scherzo a chi di paesaggi così non ne aveva mai visti.

“…passo dopo passo non ci accorgiamo più dell’estrema cura nella pulizia di ogni pietra che costituisce il borgo e anima e corpo si trovano così proiettati in un altro tempo.”

Con il cielo terso e i colli ad aprirci le loro porte, passiamo Monselice e il suo castello inoltrandoci nel cuore di questo territorio. Poche casette, eleganti vigne e secolari ulivi dominano l’occhio dell’osservatore. Imbocchiamo una stradina in salita e il paesaggio cambia: eccoci nel borgo di Arquà Petrarca.

Posteggiamo il nostro destriero e decidiamo di addentrarci, gradualmente passo dopo passo non ci accorgiamo più dell’estrema cura nella pulizia di ogni pietra che costituisce il borgo e anima e corpo si trovano così proiettati in un altro tempo. Ora indossiamo gli abiti del viandante trecentesco, precisamente pensiamo di essere stati trasportati nel 1370 quando il nostro villaggio si chiamava ancora Arquata o Arquatum, memore del periodo in cui in queste terre a dominare fu Roma che lasciò senza dubbio l’impronta della sua mano luminosa sulle terre che in precedenza offrirono rifugio ai valorosi Eneti, amici dei troiani. Arquata non ha perso questa memoria.

Camminiamo per il borgo e le sue ripide stradine fatte di sampietrini stesi sopra a soffocare quella bianca pietra calcarea che in alcuni punti molto suggestivi riesce a farsi spazio e spuntare dalla pavimentazione, mostrarsi nella sua bellezza e dimostrare la propria forza nel sorreggere antichi edifici.

Come viandanti necessitiamo di ristoro e incontriamo diverse osterie, manna dal cielo per chi desidera un po’ di riposo, del cibo semplice e perché no un bicchiere di vino o di brodo di giuggiole, lasciando le orecchie ascoltare con cortesia le raccomandazioni dell’oste (i veri conoscitori del luogo) e proiettando la mente alle riposanti colline. Scendiamo nella piazza bassa, nei cortili delle case si scorgono i giuggioli carichi dei loro frutti marroncini, testimoni del filo di connessione teso da centinaia e centinaia di anni dall’Italia al Medio Oriente.

Lì si erge la chiesa della Santa Maria Assunta risalente a un periodo subito successivo all’anno mille, è lì nella piazza che incontriamo un vecchio signore toscano, seguito da Lombardo della Seta, il suo copista. È Francesco Petrarca, poeta laureato, passeggia assorto attraverso la piazza verso boschi che scendono, sente di essere giunto al termine della sua vita ed è in quel borgo incantato, che tanto gli ricorda le sue terre natìe, che si trova sulla via di sublimazione del suo percorso di vita interiore, le poesie del suo Canzoniere gli ricordano il giovanil errore e solo ora può chiedere alla Vergine bella di accogliere la sua anima dedicandosi alla limatio dei suoi sublimi canti. Recita mormorando:

Vergine, quante lagrime ò già sparte,
quante lusinghe et quanti preghi indarno,
pur per mia pena et per mio grave danno!
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa et or quel’altra parte,
non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortal bellezza, atti et parole m’ànno
tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra et alma,
non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.
I dí miei piú correnti che saetta
fra miserie et peccati
sonsen’ andati, et sol Morte n’aspetta.

Decidiamo di non interromperlo e quindi di tornare sui nostri passi, ci voltiamo ed eccoci tornati al 2020. Al posto del pensoso poeta si erge il suo monumentale sarcofago di marmo rosa, salendo le ombrose osterie sono diventate allegri ristorantini, i carri e i cavalli tornano ad essere automobili, ma c’è qualcosa che non è mai cambiato: il colore delle pietre.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *