Argonauti

A sinistra di Evola

16 Aprile 2021

di Alessandro Viviani

Nel Tramonto dell’Occidente, un intramontabile e realisticamente pessimista Oswald Spengler ci ricorda che: «ogni cosa abbia un fine avrà inevitabilmente anche una fine». Se è vero che, dopo ogni grande scalata al cielo, la Caduta sia ineluttabile, è vero anche che il tramonto non sia un incidente di percorso nella grande “marcia trionfante della ragione”: bensì un destino e addirittura un mito fondativo; basti pensare alla teoria delle età di Ovidio ed Esiodo, ed alla dottrina vedica delle quattro età dharmiche. Rifiutando l’ottimismo pervasivo proprio di una visione unidirezionale e teleologica, a noi della Storia interessa più che altro la sua morfologia e, con lucido e distaccato realismo, osserviamo l’inesausto susseguirsi dei cicli ascendenti e discendenti della Civiltà. Spengler è figlio di Nietzsche: il grande cantore della “morte di Dio”, evento che ha costretto l’Occidente alla resa dei conti. Se gli Dei sono scomparsi e se l’epoca attuale – scomodando René Guenòn – rappresenta effettivamente il periodo estremo del Kali Yuga della tradizione vedica, allora è nostra principale preoccupazione capire come vivere e come darsi una forma in un’epoca di dissoluzione.

Non c’è bisogno di ricordare che Julius Evola, soprattutto in Cavalcare la Tigre, tenti di dare risposta a queste domande, rivolgendosi a quel «particolare tipo umano» che, pur dovendo essere-nel-mondo, perché vi è gettato, si orienta con la stella polare della Tradizione – che probabilmente egli riconosce perché ne ha, in qualche modo, reminiscenza platonica. In effetti, Tradizione e Modernità rappresentano, rispettivamente, il piano verticale (metafisico) e quello orizzontale (storico) dell’esistenza, la quale si attua nel mezzo. Evola è anche un alpinista, ed in tale veste consiglia di andare «all’assalto» delle vette: con il medesimo spirito, non incosciente ma per nulla cauto, egli affronta i problemi metafisici. Cavalcare la Tigre è il testo centrale – nonché il più frainteso – della produzione evoliana: non solo perché, rivolgendosi all’uomo differenziato, propone un orientamento pratico come reazione al disorientamento; ma soprattutto perché affronta la dialettica tra Nichilismo e Tradizione – la risoluzione della quale risulterebbe impossibile per un qualsiasi conservatore passatista. Il folle al mercato ha detto bene: ma a morire non è il Dio-principio; è morto piuttosto quel Dio inteso come sostegno morale della vita umana e terrena e che, secondo Henry Corbin, era diventato «ente maggiore tra gli enti».

L’intento di Evola, infatti, non è quello di ritornare al premoderno: questo percorso non solo non è possibile, ma non è nemmeno auspicato. L’obiettivo è, invece, tramutare il veleno in farmaco, che sono la stessa cosa su due piani differenti. Accettando la totale assenza di ogni appoggio esterno, che è stato distrutto dai processi dissolutivi, il compito dell’uomo differenziato è quello di accettare il Nulla superandolo attivamente senza subirlo – e senza ricommettere gli errori della “metafisica” individuati, in modo diverso, da Nietzsche e da Heidegger. Nel saggio “Ricognizioni: uomini e problemi”, Evola considera il “Dioniso” di Nietzsche in relazione alla «Via della Mano Sinistra», percorso iniziatico che implica «il coraggio di strappar via i veli e le maschere con cui “Apollo” nasconde la realtà originaria, di trascendere la forma per mettersi in contatto con l’elementarità di un mondo in cui bene e male, divino e umano, razionale e irrazionale, giusto e ingiusto non hanno più alcun senso».

Ne il Cammino del Cinabro, l’esoterista romano è ancora più esplicito: «Via della Mano Sinistra – che significa assumere il negativo in positivo – è anche quello che dovevo seguire nel mio libro, Cavalcare la tigre, in vista della situazione stessa dei tempi ultimi e del corrispondente bilancio negativo che mi trovai costretto a fare in via definitiva, dopo aver constatato che nessuna iniziativa raddrizzatrice, ricostruttrice (da “Via della Mano Destra”) può illudersi di avere una qualche probabilità di successo nel clima generale del mondo e della società attuali prima del chiudersi di un ciclo. In una epoca di generale dissoluzione, l’unica via che si può tentare è appunto quella della Mano Sinistra, malgrado tutti i suoi rischi».

Assumere gli aspetti più distruttivi usandoli a scopo di liberazione. Il concetto è espresso nell’induismo attraverso la tripartizione divina: Brahma, Vishnu e Shiva rappresentano rispettivamente la creazione, la conservazione e la distruzione dell’ordine cosmico. «Lo stesso Guénon, in un articolo dal titolo Il quinto Veda, dedicato al Tantrismo, scrisse che in particolari periodi ciclici, prossimi alla fine dell’Età del Ferro, del Kali-Yuga, molte antiche istituzioni tradizionali – monarchia, chiesa, gerarchia sociale, sistema delle caste – perdono la loro forza vitale, e pertanto l’auto-realizzazione metafisica deve trovare metodi e vie nuove, non ortodosse». In questa prospettiva, è interessante l’applicazione metapolitica della “violazione controllata del dharma”, dell’ordine, allo scopo di giungere al di sopra del dharma e non invece ad una condizione di disordine e caos. Il filosofo russo Aleksandr Dugin sostiene come anche per i nazional-bolscevichi il tradizionalismo si declini in una forma di trascendenza distruttiva: «razionalismo ed umanismo di stampo individualista hanno colpito a morte persino quelle organizzazioni del mondo contemporaneo che nominalmente hanno ancora carattere sacro. Il ristabilimento della Tradizione nelle sue proporzioni reali è impossibile. Di conseguenza, la lezione di Evola per i nazional-bolscevichi consiste nell’accentuare quegli elementi direttamente connessi alle dottrine “della mano sinistra”, alla realizzazione spirituale traumatica nella concreta esperienza di trasformazione e rivoluzione, al di là di usi e costumi che hanno perduto ogni giustificazione di ordine sacro».

Noi non crediamo che nel mondo moderno si possa parlare di maestri: ed Evola non si è mai posto come tale; resta però una guida ed un punto fermo nel percorso di formazione. E’ necessario, tuttavia, superarlo ed integrarlo: soprattutto per quanto riguarda la visione politica. Scendendo nel dominio politico, infatti, possiamo dire che Evola – pur rigorosamente estraneo ad ogni dimensione partitica di massa – rimase tutto sommato aristocraticamente a “destra”, dove esser di destra significa però «riconoscere la natura decadente dei miti razionalistici, progressistici, materialistici che preparano l’avvento della civiltà plebea, il regno della quantità, la tirannia delle masse anonime e mostruose». Ogni prodotto della Rivoluzione Francese – democrazia, socialismo o liberalismo – viene rifiutato in quanto agente della sovversione. In virtù di questo, Evola nega qualsiasi interpretazione “tradizionale” delle dottrine rivoluzionarie di sinistra: questo, secondo Aleksandr Dugin, rappresenterebbe tuttavia una discrepanza tra l’impostazione metafisica del barone, tesa alla Via della Mano Sinistra, e le sue convinzioni politiche «influenzate – a detta del filosofo russo – dai circoli dell’estrema destra mitteleuropea». Il bolscevismo viene liquidato come un’ideologia internazionalista, una teoria e prassi di sovversione che si è impiantata in Russia come avrebbe potuto fare altrove.

Per Moeller Van den Bruck, anima della rivoluzione conservatrice tedesca, la rivoluzione russa fu invece sì una rivoluzione di popolo, proletaria e contadina, ma radicata nel profondo dell’anima russa, «barbara e asiatica», quindi anti-occidentale e anti-moderna: «l’uomo russo, pazientemente ubbidiente, si piegò al pesante militarismo di una nuova autocrazia. Aveva finito per considerare estranea e ostile la burocratica autocrazia poliziesca dello zarismo, conformatasi alla Pietroburgo occidentale. L’autocrazia del socialismo era voluta da lui stesso. Il bolscevismo era russo. E solo russo». Adriano Romualdi, che di Evola fu il miglior “allievo”, scrive: «per Moeller, il bolscevismo è nazionale, anzi persino conservatore, perché lascia invariate le linee maestre della storia russa: ortodossia, autocrazia, nazionalità». La rivoluzione d’ottobre, nell’era dell’irruzione delle masse sul palcoscenico della storia, rappresenta a tutti gli effetti la piena transizione della Russia nella modernità, consentendole però di competere – anche tecnologicamente – con l’Occidente e la sua pretesa di sancire la validità universale di una serie di valori che sono invece espressione di uno sviluppo storico locale e particolare: la democrazia liberale, il parlamentarismo, il capitalismo, l’individualismo e i diritti umani.

«Mosca è sacra, Pietroburgo è Satana»

si legge nel Tramonto: sono due archetipi, tuttavia, complementari. In questa prospettiva, anche il cambio paradigmatico e formale operato dalla via cinese al comunismo rappresenta di fatto sia un freno all’occidentalizzazione del paese – annebbiato dall’oppio e occupato dagli stranieri – sia una riaffermazione, da parte della Cina millenaria, della propria vocazione all’impero, costringendo le altre potenze del mondo a fare i conti con il dragone; tutto ancor più evidente oggi, in uno scenario mondiale in cui prendono forma Grandi Spazi contrapposti, come teorizzato da Carl Schmitt. La forma-stato sgorga dalla terra, dal sangue e dalla storia ed è plasmata dalla forma-vita: Mao Tse-Tung può essere annoverato tra quei grandi capi del secolo breve – pensiamo anche a Khomeini – che, pur nella diversità delle ideologie utilizzate, perché diverse erano le realtà storiche, religiose e culturali, hanno saputo accompagnare i rispettivi popoli verso una transizione, comunque, inevitabile.

Possiamo utilizzare la Weltanschauung tradizionale per leggere tutti i fenomeni rivoluzionari del XX secolo: i fascismi storici europei furono senza dubbio un’espressione della modernità, ma anche il tentativo di sovvertirla dall’interno procedendo contro lo spirito del tempo. I movimenti nazionali ebbero una fase costruttiva: edificarono – più o meno compiutamente a seconda del contesto storico, geografico e culturale – uno Stato organico, totale, gerarchico e corporativo (via destra); ma, soprattutto in una fase movimentista, si posero spesso anche come forza autenticamente rivoluzionaria (nel senso di re-volvere) e quindi distruttiva rispetto allo status quo (via sinistra).

Anche Ernst Juenger scrive: «la distruzione è il solo mezzo che appare appropriato dinnanzi alla situazione attuale. Noi non saremo in nessun posto dove la vampata esplosiva non ci abbia fatto strada». Non siamo sicuri, tuttavia, di poter continuare, nella post-modernità, a vedere la Tecnica come mito rigeneratore antiborghese ed antiromantico, dominato dall’operaio-eroe ai fini di superare attivamente il nichilismo (e quindi, anche qui, di assumere il negativo in positivo). La tecnica – che nel mondo antico era governata da imperativi non tecnici, come l’ordine del kosmos ed il senso del limite – ha sancito la signoria dell’uomo sulla natura-matrigna: ma oggi, poiché la capacità di realizzare scopi è diventata il fine ultimo, essa stabilisce la signoria della “macchina” sull’uomo, annullando ed escludendo ogni interpretazione ideologica o comunque non meramente tecnica della politica, dell’economia e di tutti gli orizzonti dell’umano agire.

Questo, almeno in Occidente, escluderebbe definitivamente la possibilità di qualsiasi vera azione politica rettificatrice. Per quanto riguarda l’orso russo, a parere di Spengler:

«Tolstoj rappresenta la Russia del passato, Dostoevskij quella dell’avvenire».

Secondo il filosofo degli “anni della decisione”, mentre Tolstoj – che parlando di Cristo intende Marx – sarebbe l’uomo della società cosmopolita, Dostoevskij è il contadino che dentro di sé non si libererà mai della campagna. Noi pensiamo, trovandone una più articolata conferma nel “platonismo politico” di Aleksandr Dugin, che la Russia si trovi invece ad un bivio: essere il non-occidente ed incarnare, anche in una prospettiva soteriologica ed escatologica, un Impero della Fine ed il ruolo simbolico di Katechon; oppure diventare, semplicemente, il non-ancora-occidente: perendo sotto l’abbraccio mortale della tecnica come fine, della biopolitica e del transumanesimo. Nel frattempo, visto che abbiamo parlato della necessità di darci una forma in un’epoca discendente, ci convincono le evasioni avventurose, alla ricerca dell’ordine perduto, dello scrittore francese Sylvain Tesson. Nella sua permanenza nelle foreste siberiane, egli sperimenta di nuovo gli elementi primordiali: il contatto con i quali consente di compiere qualcosa di vagamente simile al tentativo, delineato da Evola, di trascendere le forme, cercando di ristabilire una riconnessione pratica con il logos originario.

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